Prezzi destinati a rimanere alti: secondo il docente Usi, chi oggi cerca di salvarci doveva piuttosto prevenire. Una comunicazione inefficace sulla speculazione in atto ha invece aggravato la situazione. La salvezza? Non verrà dalle banche, ma dalla gente che ha voglia di spendere e tornare a vivere.
L’inflazione è, semplicemente, «troppo alta e troppo ampia». Le parole recenti del banchiere centrale francese Francois Villeroy de Galhau, che rilancia l’allarme su quello che sta accadendo in Europa, lasciano poco margine al dubbio su quelle che sono le intenzioni della Banca centrale europea, prossima a riunirsi per decidere il da farsi. Probabile che l’incontro si concluderà, il 9 giugno, con la decisione di alzare i tassi di interesse, a dieci anni dall’ultima volta. Ma davvero la situazione è così grave, e perché, e soprattutto perché pare di scoprirlo solo oggi, e di provare in ritardo a metterci una pezza?
Che di pezza si tratti, e anche poco utile ai fini dell’obiettivo, è convinto Edoardo Beretta, docente titolare della facoltà di Scienze economiche dell’Usi a Lugano, che prova ad analizzare l’accaduto senza concedere scusanti a nessuno: tanto meno a chi, adesso, pare operare ai fini della salvezza dell’economia, dopo aver commesso errori che, se non hanno generato la crisi, certo hanno contribuito a incentivarla. Assieme a una concomitanza di fattori inevitabili, certo, ma quanto meno prevedibili, contro i quali si sarebbe dovuto agire prima: a cominciare da una comunicazione più efficace, capace di contenere almeno in parte gli effetti più deleteri.
Professore, che cosa sta succedendo?
«Succede che ci troviamo nel mezzo di una “tempesta perfetta” causata da diversi fattori. Il primo, la ripresa post-Covid: un evento che ha sconvolto l’andamento economico regolare e creato una frammentazione delle catene di approvvigionamento globali, incapaci di star dietro alla domanda post-pandemica che vuole recuperare i due anni persi. La forte domanda perlopiù di beni al consumo, fattore comprensibile e fisiologico, e un settore dell’offerta che stenta a prendere velocità ed a farvi fronte ma che vuole recuperare i ricavi persi nel 2020 e 2021, hanno creato uno squilibrio importante: di qui, l’aumento dei prezzi. Non è un fenomeno nuovo, lo si vede ogni volta che si verifica un evento catastrofico: è utile citare gli incendi dell’Australia, che sono ciclici e producono su scala più contenuta i medesimi effetti. Ci si può immaginare, a questo punto, che cosa può seguire a una pandemia globale».
Quanto c’entra, invece, la guerra in Ucraina?
«Questo è il secondo fattore: l’instabilità geopolitica, la conseguente chiusura di certi mercati o il difficile accesso ad essi. Pensiamo per esempio al grano ucraino: torniamo al tema delle catene di approvvigionamento globale, con diverse materie prime che ancora una volta stentano a essere messe in circolo a fronte di una domanda importante. E forse c’è un terzo fattore: le misure anticicliche deliberate in questi due anni dalle autorità pubbliche, per esempio i pacchetti fiscali».
Adottate in teoria a fin di bene: chi ha sbagliato?
«La decisione è più spesso dei governi che delle banche centrali. Pensiamo al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) in Italia. È evidente che queste misure, molto spesso a fondo perduto, da una parte tendono a far riprendere la domanda, dall’altro a far correre i rincari».
Il Covid come volano dei prezzi: si può dire così?
«Il Covid ha avuto un effetto di interruzione o "sabbia negli ingranaggi" di alcuni meccanismi economici, che fino nel 2019 funzionavano. Stiamo ancora scontando le chiusure e il rallentamento forzato dell’attività economica».
A rendere speciale, in senso negativo, questa situazione è dunque una concomitanza di fattori su cui la pandemia resta una voce determinante. La rende più grave?
«Assolutamente sì, anche perché le banche centrali si trovano ora davanti a un bivio. Non è detto che aumentare i tassi d’interesse possa condurre la domanda eccedentaria a contrarsi, perché si tratta prevalentemente di una domanda di beni al consumo più che di asset finanziari o immobiliari. Stiamo assistendo a qualcosa di nuovo ed opposto: se prima della pandemia i rialzi si scaricavano sui mercati dei beni finanziari o immobiliari, cioè ad alto rendimento, ora, quale effetto del Covid, vi è una domanda maggiore di beni di consumo, cioè di tutto ciò che ha subito restrizioni nel 2020 e 2021. C’è voglia di tornare a vivere come prima. E aumentare i tassi di interesse non so quanto potrà andare a toccare questi rialzi. Del resto, anche non operare in alcun modo per rallentare l’accelerazione dei prezzi può essere rischioso».
Esistono alternative?
«Stando ad alcuni, potrebbero esservi sebbene meno convenzionali. Mi riferisco al concetto di "helicopter money", cioè "moneta dall’elicottero": una sorta di aiuto a pioggia però tradizionalmente convogliato verso il sistema bancario-finanziario, che non arriva necessariamente al soggetto economico spicciolo, sia esso il consumatore in difficoltà piuttosto che il piccolo risparmiatore. Siamo in una situazione in cui lo strumentario tradizionale è più limitato, esistono strumentari eccezionali, ma è difficile che possano essere utilizzati adesso».
Tutti d’accordo?
«Chiaramente le opinioni sono discordanti. Quella prevalente è che la fiammata dei prezzi non sarà durevole nel medio-lungo termine. Ritengo, però, che vi siano anche tante incognite: la durata del conflitto o eventuali recrudescenze autunnali del Covid. Posso ben capire la difficoltà dei banchieri centrali a questo punto».
Meglio stare a guardare ancora un po’ o è necessario decidere: che cosa sarebbe opportuno che la Bce facesse, oggi?
«Mi sbilancio piuttosto sul dire quello che avrebbe dovuto fare prima. A mio parere, avrebbe potuto comunicare meglio. La comunicazione anti-inflazionistica può rivelarsi molto importante in chiave preventiva. È mancata, o è stata insufficiente, un’azione di comunicazione efficace da parte della Bce rivolta a segnalare ai mercati che una parte dei rialzi dei prezzi non era giustificata da Covid, conflitti bellici, misure deliberate dai governi o altro ancora, ma era frutto di speculazione, cioè di rialzo eccedentario dei prezzi al consumo a scopo cautelare rispetto alle incertezze economiche future».
Sarebbe cambiato qualcosa?
«Se questa parte dei rialzi fosse stata più tematizzata, una parte del trend economico attuale sarebbe forse stata più gestibile. Penso che la Bce ora andrà ad aumentare i tassi più a breve che dopo, ma sarà una decisione subottimale: dovrebbe innalzarli molto di più, essendo il tasso di inflazione dell’Eurozona arrivato all’8%, ma non potrà perché frenerebbe la ripresa economica, peraltro già disomogenea fra Paesi membri».
Colpa delle Bce, dunque, e di un errore sottovalutato nella sua importanza?
«Credo che quello che viviamo oggi si sarebbe potuto prevedere e prevenire a livello globale. Si poteva prevedere che dopo il Covid avremmo avuto una fiammata dei prezzi e la si poteva forse contenere meglio a livello comunicativo. I tassi di interesse erano già molto bassi, forse troppo, quando si è arrivati alla pandemia. L’evento sconvolgente del Covid e le misure - giuste - anticicliche dei governi hanno foraggiato una smania di riprendersi una "vita normale" che, unita al rallentamento delle catene di approvvigionamento globale, ha creato quella che chiamo la "tempesta perfetta". La fiammata inflazionistica sarà difficilmente contenibile con un rialzo di qualche decimo di punto».
Il rialzo sbandierato in questi giorni come indispensabile dunque servirà a poco o nulla?
«Nel breve periodo, quasi certamente, sì e vi è il rischio che sia così anche nel medio periodo. La pandemia sta andando avanti da tanto tempo, più di quanto siamo stati disposti a credere tutte le volte in cui abbiamo ritenuto che fosse finita. A ciò si è aggiunto, in Europa, il conflitto russo-ucraino».
Quindi che si fa?
«Difficile rispondere. Da un lato c’è la volontà, l’opportunità e la necessità di far sì che il reddito disponibile dei soggetti economici non perda ulteriormente di potere d’acquisto, con misure di compensazione come il rialzo dei tassi d’interesse per contenere l’inflazione e i vari bonus o sgravi fiscali. Dall’altro c’è una situazione di incertezza che si riflette sui prezzi, che sappiamo tendono ad aumentare più facilmente di quanto diminuiscano. Il rischio è che un prezzo cresciuto di molto difficilmente possa rientrare con la stessa scioltezza all’interno dei ranghi. D’altro canto, si potrebbe ipotizzare di aumentare i salari per star dietro all’inflazione: attenzione però a non ricreare quella situazione di cosiddetta "scala mobile" degli anni Ottanta dove i salari erano legati all’indice dei prezzi al consumo e di fatto da una parte "ammortizzavano" i rialzi, dall’altro nutrivano la crescita degli stessi».
Ci sarà un modo per uscirne: qual è?
«Quello che si può fare è poco. La domanda è comprensibilmente molto frenetica, sebbene si possa supporre che andrà scemando nei prossimi mesi. A meno che non vi sia una recrudescenza del Covid. Qualcosa che potremmo fare è rendere le catene di approvvigionamento globali più agili così da risentire meno dei rischi geopolitici, a cui il 2022 e la pandemia prima ancora ci hanno purtroppo abituati. Anche i problemi legati all’approvvigionamento di fonti energetiche non agevolano il rientro rapido del livello dei prezzi. Quello che io invece non vedo in questo momento, nonostante molti paventino questo spettro, è il rischio di stagflazione, cioè di combinazione fra stagnazione economica e fiammate inflazionistiche. Fintanto che la popolazione non avrà esaurito l’entusiasmo post-pandemico, cioè finché eserciterà una domanda eccedentaria di beni al consumo, viaggi, intrattenimento, ristorazione, convivialità o altro, la crescita economica sarà sostenuta».
Dunque la salvezza va cercata più nella gente che nelle banche?
«Se così si può dire, sì. Altri rimedi non ci sono, se non misure che possono comportare un ulteriore rialzo dei prezzi o un rallentamento della crescita. Purtroppo non si può fare altro che "resistere", nei limiti del possibile. Un aumento degli ammortizzatori sociali rinfocolerebbe gli aumenti dei prezzi così come un secondo Pnrr; un aumento importante dei tassi di interesse ridurrebbe, però, la crescita economica. È una situazione dilemmatica, in cui il margine d’intervento è scarso».
La Svizzera potrebbe subire conseguenza dalla decisione di un rialzo dei tassi?
«Non vedo grandi effetti sulla Svizzera, che ha dinamiche abbastanza indipendenti rispetto alle decisioni della Bce, tenendo conto anche del fatto che il livello dei prezzi in Svizzera, pur commisurato ai salari, è già molto elevato e la fiammata inflazionistica è stata più contenuta che altrove. Apro una parentesi: non è un caso che a maggio 2022 l’Estonia abbia registrato un rialzo dei prezzi rispetto all’anno precedente intorno al 20%. È il Paese con il secondo Pil pro capite più basso dei 19 dell’Eurozona ed è fisiologico che il rialzo dei prezzi sia più elevato. Là dove i prezzi siano invece già molto alti − vedasi in Svizzera − il rialzo è fisiologicamente inferiore. Non penso che una modifica dei tassi della Bce possa alterare molto la situazione macroeconomica svizzera. Piuttosto, potrebbe dare un segnale alla Bns, laddove non intervenga prima».
La Bns sarà chiamata a intervenire?
«È qualcosa di estremamente difficile da determinare, anche alla luce di un rialzo dei prezzi più contenuto rispetto a quello dell’Eurozona. Certamente, come dicevo, le banche centrali europee, Bns inclusa, sono giunte alla fase pre-pandemia con una situazione di tassi di interesse forse troppo bassi».
Siamo fuori tempo massimo?
«Per l’Eurozona, visto il tasso di crescita dei prezzi e le prospettive contenute di rialzo dei tassi, probabilmente sì. Per la Svizzera forse meno, ma il tasso di interesse poco tocca le spese su cui si sta rivolgendo la domanda dei consumatori. I beni al consumo non si finanziano perlopiù a debito, attraverso i prestiti, ancor più se consideriamo che il tasso di risparmio nel 2020 e nel 2021 è aumentato, complice il Covid».
Se non vantaggi, l’eventuale aumento dei tassi della Bce quali svantaggi concreti porterà?
«Un inasprimento delle condizioni per le imprese che hanno linee di finanziamento attive con le banche commerciali e, di riflesso, un rischio di aumento del prezzo di vendita finale del prodotto. Per il cittadino, un rendimento maggiore da saldare se chiederà un prestito. In tutto questo, l’aspetto positivo è che il risparmio, penalizzato negli scorsi anni, sarà agevolato. Ma, ripeto, i prezzi tendono ad aumentare di più rispetto alla remunerazione del risparmio o fattore lavoro: di nuovo, dunque, si tratta di una dinamica dove il rialzo dei tassi interesse potrà essere forse più impattante che non di beneficio, perlomeno nella situazione contingente post-Covid. Paghiamo due fattori esogeni, cioè esterni al sistema economico: la pandemia e la guerra. Le "armi" a disposizione sono più affilate se il fattore scatenante la crisi è endogeno, interno. Quando è esogeno, sono più spuntate».
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