Intanto la Cina continua a inviare navi e portaerei nello stretto.
Solo qualche giorno fa, Politico dava la notizia dell’intenzione da parte del presidente americano, Joe Biden, di approvare una vendita di armi per 1,1 miliardi di dollari, non all’Ucraina, bensì a Taiwan. Richiesta convalidata nella serata di venerdì.
La possibile decisione era già stata accolta dalla Repubblica popolare cinese (Rpc) con disapprovazione, mentre nello stretto di Taiwan continuano le esercitazioni militari, con invio quotidiano di navi e portaerei. La risposta del portavoce dell’ambasciata cinese a Washington, Liu Pengyu, non era tardata infatti, intimando gli Usa a smettere di vendere armi a Taiwan, poiché qualsiasi contatto con l’isola implica la violazione del principio di ‘una sola Cina’. Le continue azioni degli Stati Uniti, potrebbero aumentare le tensioni e creare un’escalation, già innescata con la visita della speaker della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi, avvenuta lo scorso 3 agosto.
Intanto, però, la Cina deve far conto con economia in calo, siccità e casi Covid che paralizzano ripetutamente gli assetti economici della repubblica. Condizioni che pesano sui progetti di Xi Jinping, presidente della Rpc, in attesa del XX Congresso nazionale del Partito comunista cinese, quando si deciderà il prossimo leader cinese. Si svolgerà il 16 ottobre e voci dicono che ancora una volta sarà nominato proprio Xi.
Ma perché Taiwan è così importante per la Cina?
La questione è stata analizzata nella conferenza tenuta dalla Supsi qualche giorno fa, dal titolo: “Why Taiwan matters?”. E si fa fitta, alla luce degli ultimi avvenimenti tra Russia e Ucraina e dalle voci sempre più diffuse che Xi voglia emulare nell’impresa della riunificazione di una sola Cina, il suo omologo russo, Vladimir Putin, per ricreare ’una sola Cina.’
Ma partiamo dal principio. Con un’attenta analisi, il rappresentante della delegazione culturale ed economica di Taipei a Berna, David Huang, ha spiegato che cos’è Taiwan oggi. L’isola, situata esattamente a 180 chilometri a sud est della Cina, paradossalmente mostra molte somiglianze con la lontana Svizzera, mentre ha sempre meno aspetti in comune con la vicina Cina. Governa una democrazia diretta, con continui referendum, il 97% delle aziende è rappresentato da piccole e medie imprese (Pmi) e la lobby dell’agricoltura è molto forte. Inoltre, l’entroterra è costituito prevalentemente da montagne. Taiwan, ufficialmente ‘Repubblica di Cina’, è conosciuta soprattutto per essere la Silicon Valley asiatica, dove vengono sviluppati e assemblati microchip, computer e altri device tecnologici.
L’altro punto fondamentale da considerare è che il 43% delle sue esportazioni sono dirette in Cina e negli ultimi tempi, alla luce delle recenti vicissitudini, il governo taiwanese starebbe valutando altri mercati per svincolarsi dalla dipendenza cinese.
Perché la Cina vuole invadere Taiwan?
Per Vittorio Volpi, imprenditore, economista e giornalista, per spiegarne le ragioni, è necessario partire dai due dogmi di riferimento per Beijing: “Taiwan è sempre stata cinese” e “c’è solo un’unica Cina”. Se per Pechino “Taiwan è sempre stata cinese”, la storia mostra dei fatti ben diversi. Prima di essere cinese, l’isola apparteneva agli indigeni locali, che oggi contano solo il 2% della popolazione. Nel XVI secolo fu soprannominato Formosa, ossia ‘bella’, dai portoghesi e divenne scalo commerciale per olandesi (1624), poi i francesi. Nel 1885 vi fu poi la prima guerra cino-giapponese che portò il Giappone a sottrarre l’isola al dominio cinese. Solo nel 1945, alla sconfitta del Giappone, Taiwan passò sotto il controllo di Pechino. La sua indipendenza, qualche anno dopo, il 7 dicembre del 1949, a seguito dell’insediamento sull’isola del governo cinese del Kuomintang, in fuga dopo la sconfitta inflitta governo di Mao. Da allora, nonostante Pechino e Taipei abbiano intrapreso due strade parallele, la Cina continua a sostenere la convinzione che Taiwan le appartenga.
Esiste una sola Cina
L’idea di una ’sola Cina’ appartiene in realtà a Chiang Kai-shek, ritiratosi con i resti del governo del Kuomintang a Taiwain. Era il motto adottato dal presidente della Repubblica di Cina in vista del tentativo da parte del nuovo Stato con sede a Taiwan, di riconquistare la Cina continentale dalla Repubblica popolare cinese, soprasseduta nella rivoluzione civile con il dominio di Mao.
Il grande cambiamento nel 1972, quando l’ex segretario di Stato degli Usa, Henry Kissinger, insieme all’allora presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, promise a Mao Zedong che l’America non avrebbe sostenuto l’indipendenza di Taiwan. Nonostante il successivo tentativo di rimediare allo sbaglio, i funzionari cinesi non vollero sentir ragioni. Gli Stati Uniti riconoscevano che "tutti i cinesi su entrambi i lati dello Stretto di Taiwan sostengono che ci sia una sola Cina e Taiwan fa parte della Cina”. Per Nixon e Kissinger, “Taiwan” significava invece il governo di Chiang Kai-shek. Con il 1972 è così iniziata la crisi di Taiwan, quella che ci portiamo dietro ancora oggi.
E ora?
Gli studiosi sostengono che la Cina non sopporti l’idea di avere una repubblica democratica a pochi chilometri di distanza, con una fiorente economia, da cui dipendono gli approvvigionamenti di micro-chip e sicurezza mondiale. Tuttavia, ora come ora, l’invasione, al netto della situazione economica cinese, è l’ultima cosa che Xi Jinping vuole. A dimostrarlo i fatti recenti. Il 4 agosto scorso, l’Esercito popolare di liberazione (Epl) aveva svolto delle esercitazioni a fuoco vivo in sette aree circostanti Taiwan. Ma Pechino aveva dato la sua autorizzazione soltanto dopo la partenza di Pelosi. A dimostrazione che il governo cinese non aveva intenzione di scatenare una guerra contro gli Usa. Piuttosto, hanno pensato bene di mostrare i muscoli ad americani e taiwanesi, in attesa, forse, di una mossa falsa da parte degli statunitensi.
Cosa vuole la popolazione?
Il governo taiwanese ha chiesto espressamente le intenzioni dei cittadini dell’isola, dichiarando che, nel momento in cui mostrerebbero l’intento di voler annessi alla Rpc, sarebbero disposto a farlo. Per il momento, i taiwanesi si sono espressi per il mantenimento dello status quo, ovvero ‘una Cina’ e ‘una Taiwan’.
Una nuova Hong Kong?
La Cina, intanto, ha pubblicato il suo primo rapporto ufficiale su Taiwan, nel quale avrebbe offerto il modello “un paese, due sistemi” per la riunificazione, lo stesso utilizzato per Hong Kong nel 1997. Ai tempi, Pechino aveva assorbito la città al dominio inglese, promettendo libertà e indipendenza, poi tradite nel corso del tempo. La proposta dunque risulta essere riluttante per i cittadini taiwanesi, che passerebbero da una repubblica democratica autogovernata a un regime comunista decentrato.
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