Una mossa non condivisa dal professore di Macroeconomia e Politica monetaria all’Università di Friburgo. «L’inflazione contro cui lotta la Bns è spinta dall’offerta e non dalla domanda».
Un rialzo che ha lasciato un po’ l’amaro in bocca, quello annunciato giovedì mattina dal presidente della Banca nazionale svizzera (Bns) Thomas Jordan. Da oggi, infatti, il costo del denaro è stato portato all’1,5%, dall’1,0% di dicembre, su di 50 punti base (pb). Il consensus, tuttavia, alla luce degli sviluppi degli ultimi giorni, si aspettava un aumento meno marcato o addirittura una pausa. La Bns, invece, ha scelto di continuare nella sua lotta contro l’inflazione, aprendo la strada all’instabilità finanziaria e caricando di altri oneri le Piccole medie imprese (pmi), asse portante dell’economia svizzera.
A mettere in luce i difetti della decisione, Sergio Rossi, professore ordinario di Macroeconomia e di Politica monetaria all’Università di Friburgo (Svizzera) che a caldo commenta: «Non mi ha stupito, certo mi lascia un po’ inquieto». Perché, mentre «sul fronte del mercato finanziario, l’aumento dei tassi di interesse comporta maggiori redditi alle banche, grazie ai maggiori interessi ricevuti sui prestiti, significa anche che una parte dei debitori potrebbe essere fragilizzata se non addirittura resa insolvente».
Professore, cosa ne pensa di questa decisione?
«O è stata presa per aumentare gli utili che le banche raccolgono tramite i loro prestiti. O hanno commesso un errore, pensando di calmare la cosiddetta inflazione importata. Sussiste infatti il rischio che questa manovra non riesca a ridurre l’inflazione misurata dall’Indice dei prezzi al consumo (Ipc), anzi potrebbe esacerbarla. Se le imprese pagano maggiori tassi di interesse per rifinanziarsi presso le banche, dovranno o vorranno riscattare questi maggiori interessi aumentando i prezzi di vendita, riducendo il commercio al dettaglio e perciò la cifra d’affari di molte imprese che faranno fatica a vendere se alzano i prezzi in una situazione in cui l’economia ha già delle difficoltà».
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Concretamente, pensando al mercato ipotecario, quali scenari si delineano?
«Nei prossimi mesi, chi dovrà rinnovare dei prestiti ipotecari sia commerciali sia residenziali, con i tassi di interesse in aumento, potrebbe avere delle difficoltà nel rifinanziarli. Una parte potrebbe diventare inesigibile, i cosiddetti Non Performing Loans. Oppure, se bisogna pagare maggiori interessi sui prestiti ipotecari, ne risentirà il commercio al dettaglio, la ristorazione, l’attività ricreativa, perché si andrà meno spesso al ristorante, al teatro. Oltretutto molti stipendi in Svizzera sicuramente non aumenteranno in termini reali, anzi rischiano di diminuire, sia per il rincaro sia perché in certe imprese si esercita una pressione al ribasso su questi stipendi. Guardando anche solo nelle banche ticinesi, dovranno licenziare o ridurre gli stipendi, dato l’aumento dei disoccupati sulla piazza bancaria».
Tra tutte le attività penalizzate, ci saranno anche le start-up.
«Certo, sono proprio le Pmi a uscire danneggiate da questa decisione. Le grandi imprese transnazionali, ovvero le multinazionali, si finanziano non solo tramite le banche, ma anche nei mercati dei capitali, che sono ormai globalizzati, dunque per loro questa mossa cambierà poco o nulla. Le Pmi formano il tessuto economico svizzero e sono importanti soprattutto in vari cantoni periferici, come il Ticino: molte andranno in sofferenza. In diversi casi le banche sono l’unica fonte di finanziamento per queste imprese, ma con l’aumento dei tassi di interesse queste aziende saranno sempre più scoraggiate a investire, poiché certi progetti non saranno più redditizi».
Dal suo punto di vista era quindi preferibile optare per una pausa o per un aumento più contenuto?
«Era meglio prendere una pausa o per lo meno, a giugno, allentare l’aggressività della politica monetaria restrittiva. Sarebbe una scelta più opportuna e oculata, vista la tendenza negativa che nei prossimi tre mesi si prospetta per le attività economiche e l’occupazione sulla piazza bancaria».
Una Bns così decisa, dunque, non sta piacendo?
«La reputo una scelta errata e problematica per l’insieme dell’economia e anche per una parte della piazza finanziaria. La Bns può soltanto sperare di riuscire ad acquisire fiducia nel riportare il tasso di inflazione entro il 2%. Ma non accadrà nei prossimi mesi, poiché non è un’inflazione da domanda, ma da costi. Non si tratta però di costi del lavoro, ma dei prodotti energetici e delle materie prime, su cui si innesca il fenomeno della speculazione finanziaria. Inoltre, aumentare i tassi di interesse in una piazza bancaria alle prese con problemi importanti, potrebbe aggravare la situazione».
In che termini?
«La Bns deve assicurare la stabilità dei prezzi al consumo, ma anche contribuire alla stabilità del sistema finanziario. Alzando il tasso di interesse di riferimento, aumentano anche i tassi di interesse nel mercato interbancario. Le banche dovranno perciò pagare maggiori tassi per rifinanziarsi. Dunque saranno portate a vendere anche in maniera piuttosto precipitosa titoli che hanno nel portafoglio, per ottenere la liquidità che altrimenti dovrebbero farsi dare a prestito da altre banche, pagando dei tassi di interesse che salgono».
Una vendita precipitosa non rischia di innescare panico come per Credit Suisse?
«La vendita precipitosa di determinate azioni fa scendere il loro prezzo e, a cascata, incita altri attori economici a vendere le loro azioni, prima che il prezzo tocchi il minimo. In questo caso, non si assiste a una corsa agli sportelli, ma a una massiccia vendita di diverse categorie di azioni, che susciterebbe nuove ondate di panico e maggiore fragilità finanziaria, non solo per le banche e le istituzioni finanziarie non bancarie, ma anche per diverse imprese e famiglie».
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Come far fronte all’inflazione quindi?
«Come detto, non si tratta di un’inflazione da domanda, bensì da offerta che non può essere combattuta con un rialzo dei tassi di riferimento, ma anzi si aggrava così facendo. Per dirla francamente: è un’inflazione da profitti. Le imprese nel settore energetico hanno aumentato in maniera stravagante i prezzi di vendita. Piuttosto, dovrebbero essere proprio questi extra-profitti a finanziare le politiche pubbliche per aiutare Ubs. Invece si fa capo alla Banca nazionale e a garanzie miliardarie messe a disposizione della Confederazione, che sarà costretta a tagliare la spesa pubblica da qualche altra parte, magari proprio a scapito di aiuti destinati alle Pmi o alle attività di ricerca e sviluppo».
Si intravede un periodo di recessione?
«Più che di recessione, si intravede la tendenza a una crescita economica debole, incerta e molto volatile, che non farà bene alla coesione sociale, né a quella nazionale e anche a chi fa impresa. Di fronte a questa precarietà, chi fa impresa preferirà aspettare periodi migliori prima di investire in nuovi progetti innovativi».
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In conferenza stampa, Jordan ha detto che ci saranno altri aumenti. Secondo lei a giugno ci sarà un nuovo incremento a cui farà seguito un periodo di osservazione, oppure la Bns continuerà la sua lotta all’inflazione finché non tornerà sotto la soglia del 2%?
«In economia non si dovrebbero fare previsioni. La mia sensazione è che a giugno la Bns alzerà i tassi di 25 o 50 punti base, secondo l’andamento dell’Ipc di questi mesi, che è l’indicatore più importante considerato dalla Bns. In base alla sua evoluzione tra marzo e giugno, la Bns prenderà la propria decisione. Molto probabilmente si dimenticherà ancora che l’Ipc cresce per ragioni non legate alla domanda, ma all’offerta. Il rischio è di danneggiare la stabilità finanziaria: dopo la crisi che ha colpito pesantemente Credit Suisse e prima ancora alcune banche californiane, le principali banche centrali dovrebbero riflettere maggiormente prima di alzare i tassi di interesse. Ciononostante, sia a giugno sia a dicembre, è verosimile che la Bns continuerà sulla sua strada, a maggior ragione se la Bce e la Fed vanno in quella stessa direzione».
Arrivati a questo punto, le aspettative parlavano di un possibile indebolimento del franco. Con quanto dichiarato oggi, invece, le decisioni della Bns vanno della direzione opposta.
«Nell’ultimo trimestre del 2022 e da gennaio a marzo del 2023, la Bns più che acquistare, vende valuta straniera. Quindi la domanda di franchi che lei esercita nel mercato valutario fa aumentare ulteriormente il tasso di cambio del franco, per ridurre la cosiddetta inflazione importata. Dunque la Bns aumenta il tasso di interesse, probabilmente per tenere fermo il differenziale di interesse tra la zona euro e la Svizzera come pure tra gli Usa e la Svizzera. D’altro canto, però, all’aumentare del tasso guida si assiste a un apprezzamento della moneta nazionale, a maggior ragione quando la Bns interviene vendendo moneta straniera per acquistare franchi svizzeri, o vendendo titoli denominati in valuta straniera per acquistare titoli denominati in franchi svizzeri. Lo fa per ridurre l’inflazione importata, ma chiudendo entrambi gli occhi sulla problematica della stabilità finanziaria e della fragilità della piazza finanziaria nel suo insieme, sgretolando le prospettive economiche di numerose Pmi e start-up».
Perché la Bns ha dato questa lettura allora?
«Da un lato è vittima del pensiero monetarista dominante, una visione ideologica orientata a soddisfare alcuni interessi ben costituiti. Dall’altro perché nonostante la Bns sia indipendente dal governo, essa dipende dalle banche. Lo abbiamo visto nel salvataggio di Credit Suisse e in quello di Ubs nel 2008: la Bns non poteva non intervenire quale prestatore di ultima istanza. Ciò la rende succube delle banche di importanza sistemica, che sfruttano perciò questa situazione a loro vantaggio, fino a quando scoppia una crisi che impone l’intervento salvifico della Bns con l’ausilio della Confederazione».
Diventando Ubs un “mostro bancario”, le pressioni geopolitiche aumenteranno sulla Svizzera?
«Oltre alle pressioni che sono già in atto, non solo dal mondo anglosassone ma anche dai Paesi mediorientali, come quelle esercitate dalla Saudi National Bank, c’è un rischio reputazionale, perché chi fa affari sulla piazza finanziaria svizzera sarà portato a essere un po’ dubbioso sul dove mettere i propri averi. Se prima la concorrenza se la giocavano Credit Suisse e Ubs, ora Ubs sarà l’unico grande player non solo in Svizzera ma anche a livello mondiale; quindi di nuovo ci sarà la tendenza a massimizzare gli utili di questa grande banca a discapito della stabilità finanziaria. La Svizzera sarà messa in un angolo per aumentare la sorveglianza. Tuttavia dal 2008 innanzi, né la Svizzera né altre piazze finanziarie come Francoforte e Londra hanno guardato veramente all’interno degli istituti finanziari e in particolare delle loro banche, per un fattore di concorrenza: se la Finma esige il rispetto di criteri molto rigidi da parte delle grandi banche, queste potrebbero spostare le loro attività al di fuori dei confini nazionali. In teoria, ogni spazio economico ha messo in atto un sistema di vigilanza da rispettare, però poi il rispetto effettivo e la sorveglianza stretta viene meno quando si teme che le attività più redditizie e perciò più rischiose vengano portate altrove, sottraendo così posti di lavoro e indotto economico al Paese in cui la banca ha la propria sede».
Guardando al di fuori dei confini elvetici, settimana scorsa anche la Bce ha aumentato il tasso guida di 50 punti base. Durante la conferenza stampa, Lagarde ha dichiarato che c’è qualche banca a rischio anche in Europa. Cosa dobbiamo aspettarci?
«Sentendo la presidente della Bce, ho interpretato queste sue parole come un riferimento implicito a Credit Suisse, poiché interconnessa sulla piazza europea, anglosassone, statunitense e non solo. Ora che apparentemente il problema CS è risolto, ci saranno sicuramente delle banche in Germania, Francia, Italia e così via che rischiano di non essere così redditizie e di avere dei volumi di prestiti non esigibili in aumento. Spero che la zona euro sia pronta ad affrontare la situazione con dei cuscinetti di liquidità accantonati dalle stesse banche, come hanno fatto gli Usa un paio di settimane fa. Certo è che basta un crollo della fiducia per portare i depositanti o gli azionisti ad allontanarsi da un istituto, con degli effetti a catena, poiché le banche sono ampiamente interconnesse all’interno del Paese e sul piano internazionale».
Chissà se dopo questa decisione, la Bns si prenderà del tempo anche per valutare con attenzione gli effetti concreti che l’aumento del prezzo del denaro avrà sull’economia della nazione. O se continuerà a farsi influenzare da quel che accade al di fuori dei confini elvetici.
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