Il direttore di fondazione Agire fa un bilancio di dieci anni di innovazione sul territorio. "Non imbrigliamo la creatività. Abbiamo tante eccellenze, ma attenzione: siamo piccoli, non possiamo camminare da soli".
Qualche numero impreciso, per cominciare. Un centinaio di startup supportate ogni anno, duecento nel portafoglio; una trentina di mentor e passa, 50 attività di networking e 600 ore di coaching l’anno se ci si accontenta di dir poco, non meno di venti brevetti in media e oltre 20 milioni di investimenti complessivi fino ad oggi.
Il trend è quello del "superiore a"; difficile usare maggiore accuratezza, quando la realtà è in costante evoluzione e tende verso l’alto. "Ma non sbagliamo se diciamo che di imprese, qui, ne sono passate più di mille", afferma Lorenzo Ambrosini, direttore di Fondazione Agire: agenzia per la promozione dell’innovazione e lo sviluppo tecnologico in Ticino, che quest’anno festeggia i dieci anni di attività e si guarda fiera indietro, a quando il percorso era una sfida.
Ambrosini, sembra ieri e sono passati già dieci anni. Soddisfatti?
"Il successo nostro è il successo delle aziende. Il nostro obiettivo è proprio questo: fare il successo di startup e aziende. Non dimentichiamolo, non parliamo solo di startup, ma di innovazione".
Termine ambiguo. Di norma siamo portati ad associarla a qualcosa di straordinario: un’dea geniale, unica, sconvolgente, in grado di cambiare il mondo. Invece?
"Questa è la parte più romanzata dell’innovazione: l’inventore pazzo, che ottiene un brevetto e magari diventa milionario. Esiste anche questo. In genere però l’innovazione è un processo molto strutturato, programmato".
Direttore, ci spieghi dunque: che cos’è l’innovazione?
"L’innovazione ha due facce più una. Da una parte c’è l’imprenditoria, cioè creare da zero un’azienda con contenuto innovativo, possibilmente tecnologico. Innovativo può essere un nuovo prodotto, ma anche un nuovo modello di business: il prodotto che fino a ieri vendevo al mercato oggi è venduto tramite app, utilizzando l’intelligenza artificiale. L’altra faccia è meno spettacolare, ma non di minore importanza e con un impatto magari maggiore. Parliamo dell’innovazione aziendale: far evolvere un’azienda che già esiste, per crescere sui mercati ma anche per sopravvivere. Chi non si innova tante volte muore".
E la terza faccia?
"Riguarda l’aspetto divulgativo sociale. Noi vogliamo che l’innovazione si diffonda come cultura in Canton Ticino, non solo a livello di aziende ma di scuole, famiglie, gente comune e a salire fino al Parlamento che poi vota le leggi e i crediti. Fermarsi alle aziende non è sufficiente: prima o poi queste dovranno confrontarsi con il tessuto economico e sociale e se la cultura manca sorgono difficoltà, quando non si arriva addirittura allo scontro".
Sta dicendo che in Canton Ticino c’è un problema da risolvere?
"Diciamo che c’è un percorso da fare. Non solo qui, ma in diversi luoghi del mondo. In alcuni posti è già stato fatto: pensiamo ai Paesi anglosassoni, come la California, o Israele. Lì è strano chi non fa start-up, non chi le fa. Da noi, fondare una start-up è invece ancora una singolarità".
Manca il coraggio di rischiare?
"Chi si mette in gioco ce l’ha. Ma è importante che anche la società riconosca e accolga questa cultura del rischio e del failure. Gli startupper mettono in gioco tutto: i pochi risparmi che hanno, quelli dei propri parenti, il loro cv, la loro vita. Se non si ha la comprensione della famiglia, della società, delle banche che erogano i crediti, ci si trova a lottare contro dei mulini a vento".
All’inizio lei ha detto: innovazione non è solo startup. Eppure è di startup che finiamo sempre per parlare. Perché? Dove sono le "vecchie" aziende che innovano se stesse?
"Fin da quando Agire è nata, c’è sempre stata un’impronta forte sulle startup, una visione molto tecnocratica dell’innovazione. Da poco stiamo affrontando anche l’aspetto del change management culturale a livello aziendale. L’anno scorso, per esempio, abbiamo lanciato "Scouting for innovation": una call finalizzata a coinvolgere start-up e ricercatori fuori dall’azienda e tramite loro portare input di innovazione al suo interno. Parliamo di "open innovation": di colpo l’azienda si apre, offre un obiettivo e cerca chi ha un’idea per conseguirlo. C’è stata un’evoluzione dell’innovazione, passata da una visione tecnica a una visione culturale anche in azienda".
Ce n’era bisogno anche qui?
"Sì, a livello geografico ma anche di singole aziende. Resta poi il fatto che è più bello raccontare la storia di una start up che quella di un’azienda che si è aperta a processi innovativi e magari neanche lo vuole divulgare".
Dia lei il buon esempio: ci racconti di un’azienda storica che innova.
"La call aperta l’anno scorso da Sintetica, azienda farmaceutica ticinese che voleva espandersi nel settore della digitalizzazione in ambito di cure intensive. Invece di assumere personale nuovo o fare un progetto bilaterale con una università, con l’aiuto di Agire ha organizzato un concorso, valutato le diverse proposte e intrapreso un percorso di collaborazione con esse".
Può entrare nel dettaglio: qual è il ruolo concreto di Agire in favore dell’innovazione nel Canton Ticino?
"Agire è una realtà particolare in Svizzera. Nel resto della Confederazione c’è il cosiddetto ecosistema dell’innovazione, che è la somma di tutti gli enti che danno supporto all’innovazione: possono essere incubatori, acceleratori, investitori, eventi, messa in rete e così via. In Canton Ticino, dieci anni fa, è stata voluta quest’agenzia con il compito di fare da mantello a tutto ciò. Siamo un unicum, un conglomerato di diverse attività".
Quali?
"C’è il Tecnopolo Ticino, a Manno, dove trovano sede una trentina di aziende che sviluppano i loro progetti e si presentano agli investitori. È un marchio depositato, che fa parte del Tecnopark Allianz, indirizzato a startup in fase più avanzata. C’è Boldbrain Startup Challenge, un acceleratore che si rivolge invece a start-up in fase iniziale, con un’idea embrionale che si vuol far diventare un’azienda. Si chiama acceleratore perché comprime in tre mesi un percorso che in altri contesti avrebbe magari bisogno di un paio d’anni: alle venti imprese prescelte ogni anno diamo un pacchetto di coaching, workshop, eventi fino a una serata finale dove si presentano al pubblico e gli investitori".
Oltre alle startup?
"Agire ha anche mandati di divulgazione e messa in rete. Offre strumenti di supporto, per esempio una ricerca brevettuale assistita: non si va più a Berna ma si tutto fa da qui, in remoto. Nei nostri uffici abbiamo poi un mentore Innosuisse, l’agenzia federale dell’innovazione, che accompagna le aziende nella richiesta di finanziamenti federali. Siamo "point of entry" riconosciuto dalla Confederazione: a volte si ha un’idea ma non si sa bene che cosa fare. In questo caso ci si annuncia e si sottopone progetto il progetto ad Agire, che orienta gli interlocutori verso i servizi più adeguati".
Eppure si ha l’impressione che il Ticino sia un po’ dispersivo. Troppi organismi, troppi luoghi: non si rischia di generare confusione e avere un effetto deterrente?
"Sul troppo non sta a me giudicare. È vero che c’è tanto e bisogna fare delle scelte. Ma l’innovazione ha anche una componente di caos: se la imbriglio, la uccido. Non ci possono essere schemi, ciascuno deve trovare il suo canale. Del resto, è la nostra funzione come point of entry. Si tratta di un mondo complesso, che va spiegato, non comandato.
Fra le altre incombenze di Agire, non da ultimo, c’è il mandato affidato due anni fa dal Consiglio di Stato per sviluppare la candidatura del Ticino a Switzerland Innovation Park, un’iniziativa federale che mira a promuovere la Svizzera nel mondo come Paese dell’innovazione, sia stimolandola in locale, sia attraendo aziende dall’estero. E non parlo solo di Europa, ma di Corea, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti".
Niente "prima i nostri", questa volta? L’innovazione non conosce confini?
"Prima i nostri sì, ma inteso come ricaduta sul territorio. L’obiettivo è farlo crescere, con le proprie forze ma anche attirando investimenti dall’estero, cervelli, aziende, capitali. Il mondo dell’innovazione è globalizzato e il Ticino è un piccolo cantone di una piccola nazione. Il suo destino è collaborare. Non saremo soli: il Parco dell’innovazione è già associato a quello di Zurigo. Ed è stata stretta una collaborazione anche con il MIND, innovation district di Milano, l’ex area Expo 2015. È un segno di apertura. Questa è la direzione. Il Ticino non vuole più essere un corridoio di transito, ma un ponte tra le realtà economiche".
Il Ticino è davvero pronto a questo? Ha fatto passi così lunghi, in questi anni?
"Il ruolo chiamiamolo geoeconomico del Ticino sta cambiando. Ora vuole sfruttare la sua posizione strategica, non esserne succube. Abbiamo tante carte da giocare, tante eccellenze accademiche. Uno studio dell’Unione Europea ci ha categorizzato come Innovation Leader e valutato come ecosistema numero otto dell’innovazione in Europa su oltre 250 regioni prese in considerazione. In Svizzera siamo secondi solo a Zurigo. A volte c’è un problema di immagine, ma quando si guardano i numeri, le conferme ci sono".
Nessuna paura di chi fino a ieri era un "nemico"? Nessun campanilismo?
"Di nuovo torniamo al tema culturale. C’è un percorso da fare, ancora. Per questo motivo bisogna stare attenti a non spaventare e strapazzare la società. Un’apertura troppo veloce e incontrollata potrebbe portarci in una condizione di stress. Io però ho l’impressione che negli ultimi anni si siano fatti passi avanti. Abbiamo capito che il mondo è interconnesso e si può crescere solo se si è disposti ad approfittarne in maniera intelligente".
Quali sono i settori su cui scommettere?
"Il Canton Ticino non è verticale. Ha un’economia diversificata. I settori forti sono la meccatronica, le scienze della vita, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Stiamo anche puntando sui droni, abbiamo aperto di recente un centro di competenza del Parco dell’Innovazione. È la nostra natura e forse è meglio così. È ciò che ci ha salvati dalla crisi del 2008. L’impatto è stato minore rispetto a cantoni o Paesi focalizzati su un solo settore, dove si concentrano i rischi".
Settori emergenti?
"Il Lifestyletech. L’applicazione della tecnologia al lifestyle, che non è solo moda ma anche food, viaggi, mobilità e tanto altro. Può interessare anche settori fino a ora reputati come commodity. L’elettricità, ad esempio. Se dico che da domani consumerò solo energia elettrica pulita, prodotta dalle pale eoliche sul Gottardo, non sarà più commodity, ma lifestyle. Il potenziale di valore è di gran lunga superiore".
Dalla crisi del 2008, citata poco fa, alla crisi generata dal Covid: il Ticino questa volta come si salva?
"È la prima domanda che ci siamo posti a marzo del 2020, in fretta e furia, quando fu imposto il lockdown. Che cosa faremo ora?, ci siamo chiesti. Se c’è un problema di sopravvivenza, chi si permetterà ancora il lusso di innovare? In realtà, l’effetto è stato opposto. È aumentato l’interesse verso l’innovazione, sia da parte di startup sia dalle aziende. Una situazione strana, causata da diverse ragioni".
Quali, secondo lei?
"La prima: ridotta l’operatività, c’è stato più tempo per pensare. Le aziende hanno tirato fuori dai cassetti i progetti accantonati per dare spazio ad altre priorità. La seconda: poteva essere un modo per attivare fondi di sostegno finanziario. Terzo motivo, molte aziende hanno usato la crisi come un’opportunità per innovare il proprio business. Se non posso più portare in giro la mia merce con il camion, la metto in internet. Il Covid non ha portato nuove realtà: ha accelerato la loro introduzione. Ha fatto in due anni quello che altrimenti si sarebbe fatto in dieci. Ora è come se ci trovassimo nel 2032".
E adesso?
"Adesso si torna indietro a regolamentare ciò che è successo così velocemente. Il telelavoro, per esempio: non c’è più l’obbligatorietà, ma vediamo cosa è rimasto di buono e come ottimizzarlo. La videoconferenza: tre anni fa si sarebbe storto il naso. Avremmo preferito vederci di persona, bere qualcosa insieme".
Tutto di guadagnato? Non abbiamo perso niente?
"Bisognerà trovare il giusto equilibrio. Siamo andati all’estremo, ora cerchiamo di bilanciare. Alcuni rapporti non possono prescindere dall’incontro fisico, specie laddove bisogna instaurare un rapporto di fiducia. Startup e investitori sono un esempio".
Dunque il Covid vi ha portato altro lavoro. Ce la fate?
"È vero, i numeri sono cresciuti in maniera importante, anche a livello di investimenti. Chiariamo, però: questa non è la fotografia del Canton Ticino intero. Non tutti hanno bisogno di noi. Per fortuna: non potremo gestire tutti".
Imprese che siete costretti a scartare?
"Noi non scartiamo, indirizziamo verso altri servizi, magari più idonei. Nel point of entry c’è un esame di entrata in materia".
Quali sono i requisiti per stare con voi?
"Serve una componente di innovazione, un potenziale di crescita e il ritorno sul territorio. Aprire una pizzeria, per esempio, è una bella iniziativa, ma non ha bisogno di noi. Chi risponde ai requisiti viene poi orientato: Tecnopolo, Boldbrain, Parco. Alcune startup poi muoiono, altre si trasformano. Il percorso non è mai lineare. Si basa sulle persone. A volte seguiamo più le persone che il progetto: partono con un’idea e magari finiscono per stravolgerla. Cominciano con un’idea, poi la cambiano. Come fa una startup che parte da zero ad andare al New York Stock Exchange, come è successo tre giorni fa? Il vero startupper rompe gli schemi. Per esplodere serve un po’ di sregolatezza".
Gli investitori come si convincono?
"C’è un detto secondo cui l’investitore investe sulla persona, non sul prodotto. Anzi, cerca chi è già fallito, magari due o tre volte. Il fallimento non è qualcosa di negativo, come purtroppo lo si interpreta. Ci manca la cultura del fallimento, come del resto ci manca la cultura del successo, spesso visto come qualcosa di losco, che ha qualcosa di poco trasparente dietro".
Agire non sbaglia mai? Ci sono imprese su cui non avreste scommesso e che vi hanno sorpreso?
"Succede continuamente. Anche il contrario: idee in cui avevamo creduto che invece si incagliano".
Da chi dipende?
"Da mille fattori. Ma è la persona soprattutto che fa la differenza. Lo startupper è qualcuno che ha un’idea ma a volte non ha le competenze per svilupparla. Da tecnico di laboratorio d’un tratto si trova top manager. Deve saper riconoscere le proprie debolezze e accettare di attingere risorse da fuori. O anche di essere acquisito, perché da solo non riesce a gestire qualcosa di troppo grande. Ama il suo prodotto, "my baby", ma a volte deve imparare a lasciarlo andare".
Tutt’altro che scontato, non trova?
"Certo, dopo aver investito ore, notti, week end, ci si identifica con il proprio prodotto. Ma tenerlo troppo stretto non è sempre la strada giusta. E qui viene in aiuto Agire. C’è però chi lo capisce, chi no. Ci sono persone che definiamo "coachable" e "uncoachable". Per avere successo bisogna saper ascoltare. Il vero startupper all’inizio non sa neanche a che cosa sta andando incontro, è solo un sognatore senza un piano. Ma da soli non si diventa multinazionali. E poi il mito dell’unicorno non è tutto. C’è una grande fetta di startup che diventano belle aziende, di dimensioni medie, e a loro va bene così".
Una realtà a cui si è affezionato?
"Diverse. Ne cito una: xFarm, insediata al Tecnopolo, che lavora sull’agritech e la digitalizzazione del settore primario. Opera in Sudamerica, in Asia, ha ricevuto importanti finanziamenti e premi. È un ambito intorno a cui l’interesse sta esplodendo".
Innovazione è sempre sinonimo di successo?
"Il successo è l’obiettivo. Innovazione è anche sapere accettare la sconfitta".
Dal passato al futuro: che cosa ci attende?
"Il Parco Innovazione Ticino. Alcuni centri di competenza sono già partiti. Si tratta di costruire la struttura, l’offerta, attirare aziende da fuori".
Per il Ticino che cosa cambierà ?
"Ci sarà un progresso del tessuto economico, ma la risposta più ampia sarà a livello culturale. Mi attendo un avanzamento nell’economia ma anche nella mentalità. Entreremo in prima lega, a livello svizzero e internazionale, nelle realtà dell’innovazione e dell’eccellenza accademica. Si parlerà del Ticino in altre parti del mondo. Ma per questo dobbiamo appoggiarci agli altri. Non illudiamoci di poter camminare da soli".
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