Una mossa inaspettata ma positiva, secondo la docente Supsi, destinata a riportare equilibrio nel mercato immobiliare. Ma il futuro della Svizzera dipende anche da Italia ed Europa, che devono ricominciare a investire su se stesse.
Ora che il dado è tratto, non resta che provare a tirar le somme; giudicare, con autorità che non appartiene, l’operato di chi a tavolino decide la sorte economica del Paese. A qualche giorno di distanza, l’effetto sorpresa, ormai, è stato metabolizzato; l’incremento dei tassi di interesse, mezzo punto percentuale in più, è cosa acquisita. Sarà sufficiente a contenere l’inflazione, che a maggio ha raggiunto il 2,9% e che comunque in Svizzera è molto meno preoccupante che altrove? Era davvero necessaria, proprio adesso? E quanto ha pesato l’analoga misura presa dalla Bce il 9 giugno, dalla Fed il 15, sulla decisione della Banca nazionale svizzera di intervenire subito e in maniera importante, invece che a settembre come ipotizzavano gli analisti e con ritocchi più modesti?
Domande che restano sospese, mentre si ragiona sull’opportunità di una manovra che, però, potrebbe non essere sufficiente. Ma è bene valutare con attenzione se e quando farne seguire una seconda, che porta con sé il rischio deleterio di frenare in maniera eccessiva la crescita: parola di Amalia Mirante, docente e ricercatrice di Economia politica, etica economica e storia del pensiero economico presso la Supsi.
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Prima la Bce, sette giorni dopo la Bns. Coincidenza?
«La politica monetaria nazionale svizzera da sempre è fortemente legata, in parte anche condizionata, dalla politica monetaria europea. Già prima dell’Unione Europea la Svizzera seguiva con attenzione la politica monetaria tedesca, essendo la Germania uno dei nostri principali partner commerciali».
Eppure la Bns ha lasciato spiazzata la maggioranza. Perché intervenire proprio adesso?
«La mossa della Bns è stata inaspettata: ha un po’ anticipato i tempi e ha preso una decisione più forte della Bce, aumentando il tasso di interesse di 0,5 punti percentuali. Una manovra forte, decisa, probabilmente spinta da una accelerazione dell’inflazionenegli ultimi mesi anche in Svizzera».
"Inaspettata": vuol forse dire che non ce n’era bisogno, non adesso, non in questo modo? Insomma, la Bns ha forse "esagerato"?
«Credo che l’operato della Bns negli ultimi anni sia stato ottimo. Spesso ha preso decisioni che sono state definite inaspettate, in alcuni casi si è detto addirittura dettate dalla fretta: io non penso assolutamente che i vertici della Bns agiscano per fretta o in maniera impulsiva. Ritengo piuttosto che decisioni del genere possano aiutare a rompere la prevedibilità, attraverso risposte più importanti di quelli che ci si aspetta».
Che cosa stavamo aspettando?
«Magari un +0,25% fra qualche settimana, se non un ulteriore rinvio della manovra, alla luce del fatto che l’inflazione in Svizzera è molto più bassa che nell’Unione Europea. Non giudicherei però quello che è avvenuto in maniera negativa. Spesso, per scardinare il comportamento degli agenti economici, è necessario prendere delle decisioni forti».
Qual è il comportamento da modificare?
«Quello dei consumatori, affinché rallentino la loro domanda, e quello delle aziende, perché riducano i loro investimenti. Tutto ciò premesso che l’inflazione è nell’aria da parecchio tempo e non è stata portata dalla guerra. È qualcosa di più strutturale e dunque difficile da curare nell’immediato, causata dal Covid e dai lockdown, dai ritardi, dai rallentamenti nell’estrazione delle materie prime. I segnali si vedevano già ad aprile dell’anno scorso. A settembre gli Stati Uniti correvano con l’indice dei prezzi al consumo. E c’è anche un’altra questione, a mio parere sottovalutata: l’aumento del benessere di alcuni Paesi».
Questo cosa comporta?
«Pensiamo alla Cina: il benessere aumenta e le persone vogliono case, auto, beni di consumo che qui già abbiamo. Parliamo di 1,4 miliardi di persone, che hanno dunque un impatto irruento sulla domanda. Da un lato l’offerta che rallenta, dall’altro la domanda che cresce: ecco che si crea lo scompenso. E non illudiamoci di sistemarlo subito, "solo" aumentando il costo del denaro».
Era così imprevedibile o siamo arrivati un po’ fuori tempo?
«Se cè qualcosa che è stata sottovalutata è la durata di questa inflazione, che la Bce definiva come transitoria, dipendente da un po’ di ritardo nelle catene di approvvigionamento, dall’incremento dell’uso delle fonti energetiche. Non ci si è resi conto che i lockdown, la crescita del benessere e dei consumi, per esempio in Cina, ma anche il grande movimento per la transizione ecologica, impossibile da compiere in pochi anni, hanno generato un cambiamento più grande di quel che si stimava. O, forse, in quel momento la Bce non se l’è sentita di frenare una crescita che doveva esserci. Non dimentichiamo questo aspetto: l’aumento dei tassi di interesse, fatto qualche tempo fa, avrebbe rallentato una crescita estremamente necessaria».
Vuol dire che adesso smetteremo di crescere? O che non c’è più alternativa?
«Io credo che ci troveremo ad affrontare mesi difficili e bisognerà occuparsi di chi pagherà maggiormente le conseguenze. Penso ai redditi fissi, ai pensionati, che soffriranno di più perché si tratta di aumenti generalizzati su tutti i beni di prima necessità. Soffriranno anche le piccole e medie aziende, che vedono aumentare i costi ma non possono aumentare i prezzi e hanno anche esaurito le loro riserve dopo il lockdown. Ciò detto, credo che un aumento dei tassi di interesse sia sano per l’economia. Non era sano, invece, ciò che abbiamo vissuto negli ultimi anni. Ovviamente, chi ha comprato casa e vedrà aumentare l’ipoteca non sarà felice, ma è anche vero che un tasso di interesse ipotecario di un 3% in dieci anni non è così negativo».
Tutto questo potrà bastare o serve altro?
«La Bce, per esempio, ha detto stop agli acquisti dei titoli. Era necessario: la politica economica anticiclica è buona e giusta se aiuta l’economia quando c’è necessità, ma poi si rischia una sorta di doping. Quando le cose vanno bene, bisogna avere il coraggio di fare un passo indietro. La Bce l’ha annunciato, con la conseguenza che i Paesi indebitati vedono aumentare i tassi di interesse sulle obbligazioni di Stato. È il caso dell’Italia. Ma è sbagliato pensare che sia colpa della Bce».
Di chi è?
«Il problema è che l’Italia ha un debito pubblico enorme. Non vorrei che la medicina cui si sta pensando, il famoso scudo antispread, sia di nuovo una sorta di doping per l’economia italiana. Non si può continuare in eterno ad alimentare con la spesa pubblica un’economia che non opera i cambiamenti strutturali di cui ha bisogno».
I tassi di interesse andranno alzati ancora?
«È da valutare con attenzione. Se l’effetto generato è quello di un freno importante ai consumi e agli investimenti, probabilmente bisognerà scegliere una politica meno aggressiva».
La Svizzera è più felice o fortunata?
«Una parte di fortuna c’è, ma godiamo anche di condizioni strutturali differenti. La Svizzera è un piccolo Paese che da quarant’anni fa di esportazioni superiori alle importazioni la sua forza. È un Paese che ha una moneta estremanente forte e, attenzione, questo può essere un problema per le esportazioni delle piccole e medie imprese, ma le grandi sono collocate in settori e mercati dove lo "svantaggio" della moneta forte è compensato da qualità, tempi di produzione rapidi, garanzie. Con il franco forte abbiamo imparato a convivere. Fra l’altro, ci consente di importare materie prime e prodotti semilavorati a un prezzo più basso, mantenendo costi di produzione più modesti senza necessità di adeguarci automaticamente all’inflazione, che rimane più contenuta».
Il franco forte dunque non spaventa?
«Al momento non è un problema, anzi diventa fonte di vantaggi, preso atto però che l’economia è fatta di realtà diverse. Significa che complessivamente non lo è, ma ci sono settori e aziende che possono risentirne».
Come fare?
«Quando ci si rende conto che si è forzata un po’ la mano per sistemare il grande a scapito delle realtà specifiche, lo Stato può intervenire. Purché avvenga con un sostegno mirato, diretto, là dove vi sia effettiva necessità».
C’è un limite al franco che si rafforza?
«Quello che sta accadendo dice che rimarremo in questa situazione. Del resto, la Banca nazionale ha già annunciato che se sarà il caso interverrà. Io, sul punto, sono un po’ scettica e dubbiosa: la parte di riserve ufficiali detenuta in titoli stranieri è già molto ampia e non credo che la Svizzera abbia così ampio margine».
Nessun intervento sul cambio?
«Allo stato attuale non vedo necessità. Molto dipenderà anche da come si comportano le altre economie: non siamo un’isola felice e disancorata da quello che succede nel resto d’Europa. Ricordiamo anche che l’attività della Banca Nazionale, salvo azioni clamorose come la soglia minima, ha strategie giustamente confidenziali».
Secondo quanto ipotizzavano neanche un mese fa gli analisti di Credit Suisse, la Bns avrebbe in mente un secondo intervento entro la fine del 2022. Plausibile, dato che il primo è stato così forte?
«Se la corsa e l’intensità degli aumenti dei prezzi non dovessero ridursi, è probabilie. Con effetti a cascata, per esempio sul mercato imobiliare, che però, a differenza di altre nazioni, ha un sistema costruito in maniera da scongiurare crisi sistemiche. Il calcolo di rischio viene già effettuato in maniera piuttosto prudenziale. Non intendo dire che la ripercussione non ci sarà, ma che sarà contenuta e frenerà un mercato in espansione un po’ anomala. Meglio ritrovare un equilibrio».
Smetteremo di investire nel mattone?
«Se i mercati obbligazionari e azionari tornano interessanti, non c’è necessità di investire nell’immobiliare. Ad ogni modo, voglio ribadire: non vedo una difficoltà così grande per chi ha già acquistato casa. Un tasso di interesse ipotecario del 3% è normale. Una ventina di anni fa eravamo intorno al 6%».
Poco fa ha detto: "Se i prezzi non dovessero ridursi". Com’è possibile? Un intervento così incisivo, superiore alle previsioni, eppure insufficiente?
«L’intervento è stato sicuramente importante, ma c’è sempre un certo ritardo tra la manovra e il cambiamento di un comportamento da parte degli agenti economici. In questo senso, l’effetto sperato sul contenimento della domanda e l’aumento del risparmio non sarà immediato. Ciò che è importante, e difficile, è capire quando fare un eventuale secondo intervento: se messo in atto nel momento in cui il comportamento inizia a cambiare, diventerebbe eccessivo».
In questo scenario, i prezzi dell’energia che ruolo hanno?
«Anzitutto, ciò che possiamo sperare è che la guerra finisca. Senza dimenticare che gli scompensi nel sistema economico vanno oltre. Servirà del tempo. In questi ultimi anni, l’Occidente ha ridotto fortemente gli investimenti nella raffinazionedel petrolio per andare verso la transizione ecologica. Ciò implica che ora non siamo in grado di produrre di più, ma se dovessimo riuscire a fare passi avanti dal punto di vista tecnologico sulle risorse alternative, i pezzi della scacchiera si rimescolerebbero in fretta e buona parte dell’aumento dei costi che deriva dalle difficoltà nel reperire gas e petrolio verrebbe annientata».
La strada è ancora lunga, si dice però.
«Sì e no: la storia insegna che le innovazioni arrivano e sono dirompenti. Speriamo piuttosto di non ricadere negli stessi errori del passato. La produzione delle energie rinnovabili al momento rimane confinata in Cina. Come già per il petrolio, dipenderemmo da un’altra parte del mondo».
Soluzione?
«L’Unione Europea potrebbe prendere coscienza di ciò e investire, non solo nella ricerca ma nella produzione. L’Europa fatica a capire che bisogna sporcarsi le mani, fare invece di delegare».
Dunque è vero: la globabizzazione è al capolinea? Si torna a fare in casa?
«In parte sì. La specializzazione delle nazioni è a vantaggio di tutti, ma quando si spinge troppo oltre diventa un limite. Durante il primo lockdown, abbiamo scoperto che non sapevamo fare neanche una cosa semplice come le mascherine. Non dico che ogni nazione debba avere sua fabbrica batterie elettriche, ma che bisogna costruire un complesso industriale in grado di "fare". Se non ne ha la forza l’Unione Europea, chi dovrebbe averla? Non possiamo rimanere a fare gli spettatori in mezzo a due mondi, Usa e Asia, ciascuno a fare i propri interessi»,
La Svizzera fa il tifo per l’Ue?
«La Svizzera è molto brava a mantenere buone relazioni con tutti i giocatori sulla scacchiera. Ma per vicinanza e cultura è all’Europa che guarda. Da sola non ha forza sufficiente per incidere, ma unita all’Europa può dare un contributo importante a ricerca e sviluppo».
Eppure la situazione economica attuale dell’Europa non rischia di far male alla Svizzera?
«Nei prossimi mesi è probabile un rallentamento delle economie europee. Ciò potrà avere un impatto economico negativo sulla situazione in Svizzera, che all’Europa è molto legata. La locomotiva tedesca ha cominciato tempo fa a dare segnali importanti di rallentamento economico. La situazione italiana purtroppo è al bivio: ha tutto il potenziale, una storia industriale d’eccellenza, ha capacità e competenze, ma sembra sempre mancare il traguardo».
Un’Italia che stenta a ritrovare se stessa: perché?
«In questo momento ci sono in ballo miliardi di investimenti che vanno in parte a sanare anni di assenza da parte dello Stato e dei compiti che avrebbe dovuto svolgere. La riqualificazione degli edifici scolastici o degli ospedali, per esempio, non è un valore aggiunto: è un ammissione di ritardo. Si ricade poi in una logica avvelenata. Bonus, superbonus, aiuti da parte dello Stato sono spesa pubblica, che va a aumentare il debito pubblico, che rimane un enorme problema. Basta uno scossone e tutto si ferma».
L’Italia quanto conta per la Svizzera?
«Una rinascita della produzione industriale italiana sarebbe importante per il Paese, ma anche per l’economia svizzera e per l’Europa. In questo momento in Europa manca una forza trainante. La Germania sembra non avere più un chiaro indirizzo: sarebbe il momento buono per altri di subentrare. Ma l’Italia non riesce, la Francia manca in egual modo di innovazione. Dall’altra parte, Cina e India stanno lavorando molto bene, anche se da un punto di partenza ben diverso».
Meglio "agganciarsi" a queste ultime?
«Meglio tenerle monitorate, non tralasciare niente».
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