Mentre l’Occidente paga lo scotto, l’economia russa sembra reggere: ma la verità che ci attende è un’altra. Crescita americana a rischio, Cina pronta a scalzare gli Usa, nuovi blocchi geopolitici all’orizzonte: ecco l’analisi del professore di economia monetaria dell’Usi.
Lo sconcerto è legittimo: la Russia è in guerra, l’Europa è compatta nell’opporre sanzioni che si aggravano con lo scorrere del tempo e del conflitto, ma l’economia del "nemico" sembra reggere come non si riusciva a prevedere. Così almeno dice Putin, portando a riprova delle sue parole di leader nazionale i numeri di un rublo ritornato forte come prima.
Qualcosa insomma non torna; il dubbio cresce impressionante fra chi, da qui, osserva e inizia a temere che le sanzioni, sì, abbiano fatto male, ma all’Occidente piuttosto, cui gli Stati Uniti sono dovuti giungere in soccorso. Corsi e ricorsi storici, chiamati in causa in queste settimane nel tentativo di spiegare l’assurdo di quello che accade, così stupefacente e contrario al senso comune. Ma ad esso soltanto, a ben vedere: agli occhi degli esperti monetari, si tratta solo di una semplificazione destinata a rivelare prima o poi il suo inganno. Troppo prematuro, e soprattutto fuorviante, dire che alla Russia è andata bene, riflette Edoardo Beretta, professore titolare della facoltà di Scienze economiche dell’Usi.
Professore, che cosa sta succedendo?
«Allo stato attuale, il rublo è tornato, in termini di tasso di cambio, ai livelli precedenti la guerra: fatto che è stato accolto con sorpresa da vari osservatori in Occidente».
Una situazione così imprevedibile?
«Non si deve dimenticare che il tasso di cambio è sempre un’istantanea del momento. Il numero di osservazioni disponibili, cioè i giorni di guerra e di attivazione delle sanzioni economiche nei confronti della Russia, è ancora troppo piccolo per potere giudicare con certezza. Non mi aspetto, però, a livello tendenziale, apprezzamenti significativi del rublo».
Come si è arrivati a questo punto?
«Il deprezzamento del rublo nei confronti del dollaro statunitense, che nelle prime due settimane di marzo ha toccato i 134 rubli per poi rientrare su valori "normali", cioè pre-guerra, intorno agli 80 rubli, è da leggersi come effetto-sorpresa della risposta occidentale, ma anche come una difficoltà del mercato valutario a prezzare la moneta russa in una situazione drammaticamente nuova negli ultimi decenni. Un "overshooting" del tasso di cambio, direi».
Poi la Russia ha provato a "correggerlo": il tasso attuale è merito delle misure adottate o c’è dell’altro?
«Il ritorno a valori più in linea con quelli storici recenti è ascrivibile ai controlli dei capitali messi in atto dalla Banca di Russia, atti ad evitare fughe degli stessi, all’innalzamento dei tassi d’interesse dal 9,5% al 20%, scesi ora al 17% per frenare la corsa dei prezzi interni, così come alla conversione forzosa dell’80% dei profitti conseguiti in divise dalle aziende. Nel contempo, l’ancoraggio con l’oro, che è stato annunciato rimarrà in vigore per i prossimi mesi, così come le richieste di saldare molte delle principali operazioni di export russe in moneta locale, hanno rafforzato quest’ultima agli occhi del mercato valutario».
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Risposte efficaci? O semplicemente le uniche possibili?
«L’innalzamento o l’abbassamento dei tassi d’interesse sono fra gli strumenti principali a disposizione di ciascuna banca centrale: è chiaro che, in caso d’intervento di quest’ultima, se ne sarebbe fatto uso. L’innalzamento dei tassi d’interesse, in particolare, può essere un freno alla speculazione e alla volatilità del tasso di cambio, ma anche un modo per rendere la moneta locale più interessante per rendimenti ottenibili. Ad esempio a livello domestico, nei confronti di piccoli o grandi risparmiatori».
Che ne pensa invece della pretesa di farsi pagare il gas in rubli: l’Europa prima o poi cederà?
«A livello teorico, se fissato contrattualmente, qualsiasi moneta può essere accettata a saldo di uno scambio internazionale. Non credo, però, che questo sia uno scenario plausibile, a fronte di quanto sinora affermato a livello europeo. Oltretutto, sarebbe una modalità di pagamento in controtendenza rispetto alla prassi internazionale di utilizzare monete a riserva internazionale, cioè spendibili globalmente, quali perlopiù il dollaro statunitense o l’euro».
In questo gioco delle parti, l’America che ruolo ha?
«È evidente che gli Stati Uniti d’America siano in una posizione di maggiore svincolamento dalla dinamica russo-ucraina rispetto all’Europa. Nel contempo, ritengo che non sia nell’interesse di nessuna nazione che si verifichi un ulteriore inasprimento della situazione attuale, che avrebbe un impatto quasi certo sui principali partner commerciali e finanziari americani e, quindi, anche sulle prospettive di crescita degli Usa».
Chi ci guadagna, allora?
«Certamente, l’Europa nel suo complesso è l’insieme di Paesi che più risentirà da un punto di vista politico, economico e sociale dell’attuale conflitto: l’integrazione e continuità territoriale con diverse nazioni tipica del Vecchio Continente è fonte di opportunità in tempi normali, ma anche di rischi e coinvolgimento in tempi di crisi. È, però, anche vero che le attuali tensioni internazionali potrebbero accelerare un ruolo più attivo da parte della Cina - in parziale contrasto, anche di leadership monetaria, con gli Usa».
Il coinvolgimento della Cina è dunque alle porte?
«Penso di sì, a fronte delle sue dimensioni territoriali, del numero di abitanti e del ruolo economico prima di "fabbrica del mondo", poi di principale competitor degli Usa. Anche la Cina, però, dovrà prestare grande attenzione a evolversi con i tempi per non esserne travolta: la direttrice storica è, infatti, quella di una sempre maggiore importanza delle libertà e dei diritti individuali. La crescita economica è strettamente legata alla libertà d’espressione e di operatività tipica dei tempi recenti».
Ultimamente si è parlato anche di un ritorno agli accordi di Bretton Woods del 1944: che cosa significa?
«Il riferimento è ampio. Da un lato, pertiene all’ancoraggio del rublo all’oro stabilito qualche settimana fa dalla Banca di Russia, come lo fu il dollaro statunitense dal 1944 fino al 15 agosto 1971. Dall’altro, l’argomentazione è più complessa ancora, nella misura in cui fa riferimento alla possibile maggiore frammentazione monetaria che seguirà dagli eventi attuali. Sono diverse le letture che indicano che il dollaro statunitense verrà nel medio periodo affiancato da altre monete a riserva internazionale, quali il renminbi cinese».
Lei è d’accordo con questa chiave di lettura?
«Lo sono solo parzialmente. È evidente che un inasprimento della situazione geopolitica comporterà tentativi sempre maggiori di reciproco "svincolamento monetario" da parte delle nazioni coinvolte. In altre parole, lo scenario è che si crei sostanzialmente un altro blocco di Paesi che decidano di considerare una delle loro monete nazionali quale spendibile transfrontalieralmente fra di loro».
Una redistribuzione geopolitica ed economica, che scavalca i disegni dell’Europa?
«L’Eurozona è perlopiù allineata agli Stati Uniti d’America. Mi riferisco piuttosto a Paesi che, insieme, potrebbero decidere di ridurre la loro esposizione nei confronti del dollaro statunitense, la cui nazione vedrebbe perdere un corrispondente afflusso di prestiti internazionali invece fondamentali per continuare a finanziare la posizione debitoria estera, derivante da un conto corrente della bilancia dei pagamenti storicamente in deficit. Non credo però, nel contempo, che si possano rileggere gli accordi di Bretton Woods in questa precisa chiave».
Che cosa non la convince?
«Gli accordi, almeno nei loro intenti, erano incentrati sul multilateralismo commerciale e finanziario fra i Paesi membri che avrebbero di lì a poco aderito al Fondo monetario internazionale, in aperto contrasto con il bilateralismo delle prassi monetarie tipico della seconda guerra mondiale. La situazione attuale è invece di grave polarizzazione, più che di condivisione di nuovi accordi. Che poi, da decenni, gli Usa beneficino del privilegio di saldare le proprie transazioni commerciali e finanziarie mediante la propria moneta, ma siano al contempo esposti all’onere di rifornire il mondo della liquidità internazionale necessaria e dunque siano portati a indebitarsi, è fatto altrettanto noto dagli anni Settanta, sebbene non sia stato finora affrontato».
Dunque, Bretton Woods è un riferimento anacronistico?
«Credo però che non si debba dimenticare il senso degli accordi di quegli anni, che hanno condotto alla creazione delle istituzioni internazionali quali le Nazioni Unite e le sue agenzie o il Fondo monetario e la Banca mondiale: ovverosia il valore, sociale quanto economico, della pace e del multilateralismo».
Fra le misure più recenti vi è quella di agganciare il valore del rublo all’oro: a che scopo?
«Storicamente, il metallo giallo ha avuto un ruolo di ancora valoriale, che in tempi di incertezza gli investitori riscoprono. In questo caso, la Banca di Russia. Agganciare una moneta a un corrispettivo in oro, indipendentemente da che esso sia fisso o variabile all’interno di una banda di fluttuazione, è un messaggio di prontezza di intervento da parte dell’autorità bancaria centrale in caso di instabilità monetaria o finanziaria».
Ha davvero senso e, soprattutto, ha futuro?
«Il senso di tale misura è limitato dal fatto che ad ancorarsi sia stata pur sempre una moneta, peraltro non spendibile internazionalmente, attualmente sottoposta a significative pressioni al ribasso dovute all’incertezza della guerra. La misura ha una sua valenza più simbolica che fattuale. La moneta, del resto, è un simbolo d’identità nazionale ovunque».
C’erano alternative più concrete?
«A fronte dell’attuale stato di parziale isolamento economico, la Banca di Russia difficilmente avrebbe potuto optare per politiche incentrate su altre valute, come ad esempio il dollaro statunitense o, di contrappunto, il renminbi. Da questo punto di vista, può trattarsi di una delle possibile misure rimaste nella situazione attuale».
Professore, quello che sta accadendo è forse la dimostrazione che le sanzioni non servono e hanno fatto male più all’Occidente che alla Russia?
«Non credo. Ritengo, invece, che le sanzioni comminate alla Russia avranno importanti effetti economici nel medio termine, sebbene essi siano difficilmente quantificabili allo stato attuale e le previsioni in circolazione differiscano significativamente. Rimane l’alea di quanto un riassetto industriale potrà attutire l’impatto delle sanzioni economiche, che avranno chiaramente effetti anche sulla controparte occidentale. Lo stesso dicasi per i rapporti commerciali e finanziari, a livello sia russo sia europeo».
In che senso?
«Andando a incidere su transazioni commerciali e finanziarie fra Paesi, è la stessa contabilità a partita doppia, cioè il principio su cui poggia l’economia intera, a implicare che entrambe le parti risentano di una riduzione di esse. Molto dipenderà da eventuali alternative, che l’Europa da un lato saprà trovare per compensare l’ammanco in certi settori - energetico, del lusso, dei viaggi eccetera - e la Russia dall’altro per quanto attiene l’export di materie prime, ad esempio a Paesi più dell’area asiatica».
Quanto dovremo aspettare per capire?
«Come già dicevo, credo che gli effetti saranno più visibili a livello statistico nel breve-medio periodo».
Il rublo di salverà?
«Credo che il rublo non rientri allo stato attuale fra quelle monete che, a seguito di gravi crisi o fluttuazioni, debbano essere riformate con cambi di nome o altre operazioni già viste nella storia monetaria. Piuttosto, la moneta russa sarà fisiologicamente sottoposta a pressioni al ribasso fintanto che la situazione non si normalizzi, che può significare la cessazione delle ostilità così come un conflitto prolungato, cioè progressivamente "scontato" dal mercato valutario. Fa specie, comunque, osservare come fra il 2003 ed il 2008 ci volessero fra i 25 e 30 rubli per acquistare un dollaro statunitense; intorno ai 30-35 rubli dal 2008, anno della seconda guerra in Ossezia del Sud e 40 rubli nel 2014, cioè dopo l’annessione della Crimea alla Russia. Da quel momento, il rublo si è continuamente deprezzato attestandosi tendenzialmente intorno agli 80 rubli per acquistare un dollaro statunitense».
Che cosa dedurne?
«In altre parole, all’inasprirsi dei toni, la moneta locale ne ha altrettanto sofferto: l’economia russa ha, quindi, dovuto progressivamente spendere di più per finanziare l’import e commerciare con il resto del mondo».
C’è modo di uscirne?
«Ritengo che la Banca di Russia continuerà, con i mezzi a sua disposizione, a cercare di supportare la moneta locale. Certamente, solo un ritorno alla normalità potrà garantire le condizioni nell’economia reale russa per una stabilità del saggio di cambio».
Anche lei è di quelli che credono la globalizzazione sia al capolinea?
«Non condivido la lettura affiorata in queste ultime settimane per cui la globalizzazione sia giunta a un termine. Se sì, sarebbe affrettato. Dalla globalizzazione, infatti, derivano grandi opportunità economiche e di sviluppo sociale, che chiusure autarchiche hanno storicamente dimostrato di non sapere creare. Naturalmente, la globalizzazione dev’essere governata, resa più sostenibile da un punto di vista ambientale e sociale, garantendo una migliore tutela degli interessi di tutti».
Lei che cosa si aspetta ora?
«Molto dipenderà dalla durata e dall’evoluzione del conflitto in Ucraina. Certamente, credo sia fondamentale che i decisori economico-politici internazionali si adoperino affinché vi sia stabilità economica, politica e sociale, chiave del benessere. Prima la pandemia, ora la guerra: il susseguirsi di eventi gravi su scala globale non strettamente collegati all’economia è preoccupante proprio perché, a differenza della crisi economico-finanziaria globale del 2009, non deriva da fattori economici. Dunque, lo strumentario monetario per fronteggiarlo c’è, ma la sua efficacia è più aleatoria».
Nel futuro, vede una Russia che resta tagliata fuori?
«Anche l’isolamento della Russia, conseguenza dell’invasione ucraina, è a lungo andare uno scenario non auspicabile per nessuno. Fra le tante cose, riduce il numero di Paesi con cui interagire e creare opportunità su un pianeta dalle risorse scarse. La pace fa bene anche all’economia perché è intrinsecamente sinonimo di stabilità: e quest’ultima, si sa, è la base per consumi ed investimenti e prosperità in generale».
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