Per il professore ordinario di teoria finanziaria dell’Usi, si tratta di un buon piano costruito su basi solide. E per chi è cliente privato della banca rassicura: «le attività essenziali per la Svizzera» sono separate «dalle altre attività».
Settimana scorsa, Credit Suisse ha svelato al mondo il suo piano strategico per la ristrutturazione della banca. Tra i vari punti lo scorporamento dell’Investment banking, la riduzione di 9 mila posti di lavoro in tutto il mondo, un taglio di 2,5 miliardi di franchi di costi da mettere in atto da qui al 2025 e la discesa in campo della Saudi National Bank, che con l’acquisto del 9,9% a 1,5 miliardi di franchi della quota capitale, diventerà il primo azionista all’interno dell’istituto bancario. Mercoledì mattina il Financial Times ha diffuso la notizia che la Qatar Investment Authority intende aumentare la sua partecipazione, attualmente al 5%, investendo in una ventina di azioni insieme alla Banca saudita. Un accordo che porterà fino a un quarto delle azioni di Credit Suisse nelle mani di investitori mediorientali.
Per Giovanni Barone Adesi, professore ordinario di teoria finanziaria alla facoltà di Scienze economiche all’Università della Svizzera italiana (Usi), si tratta di «una strategia ragionevole» quella adottata il 27 ottobre da Credit Suisse. Certo, «dovrà limitare i rischi dell’Investment banking. Ma può contare su un’ottima divisione di gestione della ricchezza privata (Private banking) e sul nuovo amministratore delegato, Ulrich Körner, che porta con sé l’esperienza maturata durante la ristrutturazione di Ubs, avvenuta nel 2008, della quale fu uno dei principali artefici». «Ci saranno dei tagli di personale soprattutto nell’Investment banking a Londra e New York. Chi lavora in questo settore è consapevole che sono attività molto cicliche».
Professore, cosa ne pensa della revisione strategica annunciata da Credit Suisse?
«È necessaria. Penso che abbiano tutte le carte in regola per fare bene adesso. Certamente, dovranno rafforzare la gestione dei rischi, limitare i loro impegni di capitale, ma hanno delle basi solide sulle quali operare».
Ovvero?
«Le basi solide sono date da oltre un trilione di depositi della clientela del Private banking, area in cui negli ultimi anni non sono stati riscontrati problemi. Le difficoltà hanno riguardato qualche commistione impropria fra alcuni clienti del Private banking e alcune delle operazioni speculative fatte da Investment banking e indotte dalle stesse persone, in seguito emarginate».
Chi ha scelto di depositare i propri risparmi in Credit Suisse può considerarli al sicuro?
«Sì, certamente. È convinzione delle autorità svizzere e di tutto il mondo che le banche sistemiche non debbano fallire mai, perché il costo sociale sarebbe eccessivo. Naturalmente si possono cambiare i manager, ridurre i valori azionari, ma i soldi dei clienti sono sostanzialmente al sicuro. Fra l’altro il governo svizzero ha imposto la separazione fra le attività essenziali per la Svizzera e le altre attività, come per esempio l’Investment banking negli Stati Uniti. La banca svizzera è slegata da questo tipo di vicissitudini dal punto di vista legale e da una protezione implicita molto forte da parte della Confederazione».
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Cosa ne pensa dell’entrata in scena della Saudi National Bank?
«Un’ottima mossa. Hanno le basi perché diventi un buon affare. È un peccato non siano state interessate anche altre banche, ma d’altronde sussistono dei problemi per le banche occidentali dovute al fatto che l’assicurazione sui depositi è solamente nazionale.
Per esempio, l’Unione europea è da anni che cerca di avere un sistema di assicurazione congiunta dei depositi per poter creare l’unione bancaria, ma tutt’ora è impossibile farlo. Quindi è molto difficile sia per la Bns accettare una banca europea come azionista di riferimento di una banca sistemica svizzera, Ubs o Credit Suisse, e viceversa».
Perché è stato più facile coinvolgere l’istituto centrale saudita?
«La Saudi National Bank opera soltanto in dollari e non ha particolare problemi con le autorità bancarie saudite. Inoltre, il sistema interno è completamente isolato dal sistema esterno quindi non ci sono difficoltà regolamentari in Arabia Saudita per un investimento di questo tipo, in Svizzera o in altri Paesi. Il sistema saudita ha come valuta domestica il riyal, strettamente controllato dalla banca centrale saudita. Dunque se questa banca dovesse perdere i miliardi investiti in Credit Suisse non ci sarebbe alcuna ripercussione all’interno dell’Arabia Saudita. Naturalmente lo fanno perché pensano che sia un buon affare».
Per quanto riguarda le condizioni per l’aumento di capitale?
«Credit Suisse ha detto che condizioni simili saranno disponibili per l’acquisto di nuove azioni anche agli azionisti attuali. Il loro programma originario riguarda 4 miliardi di nuovi fondi. Quindi c’è una parte da coprire, ma se c’è forte domanda non credo faccia fatica a raccogliere 4 o 5 miliardi. Importante, però, è il fatto che abbia uno o due investitori che già si impegnano a coprire buona parte dell’aumento di capitale, per dare fiducia anche agli altri».
Sarà necessario l’intervento della Banca nazionale svizzera?
«Soltanto se fallisse la raccolta dei fondi sul mercato. Mi sembra che Credit Suisse sia partita abbastanza bene con sottoscrizioni da parte della Banca centrale saudita e del Qatar. Le crisi inattese possono sempre arrivare e solo in tal caso la Confederazione sarebbe chiamata a intervenire. Per il momento, invece, non ha alcun motivo».
Credit Suisse doveva rivedere già nel 2008 la sua strategia di Investment banking, alla luce di quanto era accaduto a Ubs?
«Nel 2008 Credit Suisse se la cavò abbastanza bene. Aveva appena finito di sistemare la crisi delle dotcom nel 2000 che aveva coinvolto soprattutto il suo dipartimento in California. Quindi è arrivato nel 2008 con i conti in ordine. A quei tempi, non era così evidente che Credit Suisse dovesse trarre la conclusione di ridurre il rischio nell’Investment banking.
Infatti, dopo quegli anni, hanno avuto un’attività estremamente redditizia, grazie ai cosiddetti Spacs, dei fondi azionari che vengono quotati senza un programma di investimento preciso. Sono andati di moda per diversi anni: senza fare quasi nulla si potevano ottenere dei buoni rendimenti. Questo ha consentito a Credit Suisse, il maggior protagonista di quel mercato, di guadagnare miliardi. Non sembrava ovvio che dovesse mollare questo tipo di attività. Successivamente le occasioni per guadagnare con gli Spacs si sono ridotte e questo tipo di fondi sono passati di moda. Ma dato che la divisione di Investment banking di Credit Suisse andava molto bene, si è pensato di sostituirli allentando il controllo dei rischi, per cercare di fare altri affari. Quello è stato un errore tragico che è costato parecchi miliardi, come nel caso di Greensill e Archegos, per citare i più eclatanti. Solamente a questo punto, dato che la nuova strategia stava andando male, sono stati costretti a metter mano all’Investment banking. Ma dopo il 2008, hanno avuto degli anni d’oro. Probabilmente avrebbero dovuto fermarsi tre o quattro anni fa, ai primi segnali di peggioramento».
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