Quattro chiacchiere con Matteo Mauro, Giovanni Motta, Emanuele Dascanio, che hanno scelto la blockchain per fare la loro arte: ecco perché, come e quali preoccupazioni restano.
L’NFT è un cerchio dell’esistenza che si chiude e si prepara a ripartire. È l’incontro con qualcosa cui si aspira e che ancora non si trova; fino a che, dopo anni di ricerca, giunge finalmente come opzione, tratto distintivo di una modernità che si precorreva senza essere sicuri che esistesse. Matteo Mauro, per esempio, realizzava installazioni, video arte; il mercato, che «ha legittimato la tecnologia e ci ha consentito di emergere in un mondo diverso, attratti da un’apparenza che solo in seguito ha svelato i suoi contenuti», l’ha guidato nella scelta. Uno show room appena inaugurato a Lambrate, una serie di dieci eventi in programma da settembre, è ormai uno dei crypto artisti più quotati, capace di coniugare tradizione e innovazione senza mail il dubbio minimo di voler tornare indietro.
Il "terreno fertile" di Giovanni Motta
Giovanni Motta, pittore e scultore, digitalizzava le sue opere quasi fosse un hobby, senza capacitarsi bene del perché. «Nella mia vita da direttore creativo, usavo la parte più stanca della mia giornata per fare arte, ispirato dal mondo dei manga». La cryptoarte, abbracciata per bene nell’aprile 2020, è stata per lui «un nuovo terreno fertile. Avevo nel cassetto 20 anni di lavoro in digitale, realizzati per passione».
Dascanio, il più analogico degli artisti Nft
Emanuele Dascanio racconta invece come la sua creatività, in cui si definisce quale «precursore del mimetismo rinascimentale», si realizzi in un numero limitato di opere, congedate dopo un periodo di tempo che può andare da un mese a quattro anni. «Nel mio caso, l’NFT mi ha legittimato - dice - Mi ha permesso di aggiungere un capitolo nuovo». Lui non dà una definizione precisa di se stesso; di sé parla non come «un cryptoartista, ma uno che sfrutta la tecnologia». Piuttosto che quello che è, sa esprimere quello che vuole essere: «Il più analogico degli artisti NFT, il più NFT degli artisti analogici».
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Storie di una transizione non sofferta
Storie di persone creative, ormai riconosciute pubblicamente dalla società, che hanno fatto della blockchain e della crypto arte un motivo di esistenza. Già ospiti al Metaforum di Lugano, hanno raccontato la propria esperienza e il proprio percorso verso una attualità che, all’epoca, forse sono intravedevano, senza potere immaginare il potenziale reale. Una transizione tutt’altro che sofferta, benedetta al contrario come il riconoscimento finale di qualcosa che intuivano, aspettando che il tempo ne definisse i contorni.
Autodidatti, professionisti amatoriali, artisti
Quando la blockchain è diventata anche una maniera di far arte, tre tipi di artisti sono emersi; e anche una nuova professione, il "critico di NFT", verso la quale Ivan Quaroni, milanese nato come giornalista di arte, letteratura e cinema, si è aperto senza dubbi. Oggi può "criticare" «autodidatti, che non hanno un passato da artisti e hanno cominciato a fare arte con gli NFT; il secondo tipo sono i professionisti amatoriali, che prima hanno lavorato per le industrie creative, come il cinema e la tv, e hanno scoperto poi di essere artisti al di fuori della committenza; la terza categoria è quella di chi aveva già trascorsi nel mondo dell’arte».
Matteo Mauro e l’importanza del mercato
Mercato resta una parola chiave; senza di esso, nessuno di loro probabilmente esisterebbe per quello che è. «Il mercato ha aiutato la street art a emergere, la pop art a essere storicizzata, l’arte digitale ad avere il valore che ha», riflette Mauro, spiegando il significato attuale della cryptoarte, ancora forse poco conosciuta ed esclusa dall’immaginario collettivo. Che cos’è? Vendere una pen drive? Ben altro. «La blockchain ci ha permesso di rendere il nostro prodotto unico»; vale a dire, ha restituito il senso primo al prodotto artistico, concepito fin da tempi immemori come qualcosa che si ripete, non si riproduce, e che la tecnologia senza blockchain invece rischiava di snaturare.
Il «gioco sporco» dei vecchi artisti
Se dunque è un’opportunità meravigliosa, per dirla al modo dei suoi protagonisti, la domanda è lecita: perché solo pochi compiono la transizione? Perché artisti celebrati scelgono di restare dove sono, senza farsi lusingare dalla contemporaneità che avanza? Vera scelta? O scelta obbligata? E da chi? «Il fatto è che c’è molta paura - è convinto Mauro - Paura di essere puntati come chi sta facendo il gioco sporco. C’è molta diffidenza». Vedi il caso dell’artista giapponese Takashi Murakami, bloccato nelle sue intenzioni più sincere. «"Stai attento", l’hanno messo in guardia, "o ti bruci la carriera". Forse è questo l’unico motivo per cui l’estabilishment non entra: il terrore di venire espulso».
Un’arte di serie B che si prende la rivincita
Ciò detto, «tutto sta cambiando», continua Matteo Mauro. «Per anni, il digitale è stato l’arte di serie B. A volte mi vergogno a dirlo: non viene percepita come arte. C’è ansia nel dire "Sono un’artista digitale". Fino a tre anni fa, si sentiva il bisogno di trasformarsi in qualcosa di più tradizionale. La domanda era: "Io, artista digitale, come posso trasformare la mia opera in qualcosa di fisico?". Oggi c’è chi invece si interroga in modo differente e si chiede "Io, artista fisico, come posso trasformare il mio lavoro in opera digitale?"».
Un’energia che spinge dal basso
In fondo non è così strano, inconcepibile. Sono "solo" corsi e ricorsi storici, che si ripropongono medesimi con qualche variazione nella declinazione dell’epoca moderna. Perché? Che cosa rende così difficile la mediazione culturale? «La cryptoarte è un’avanguardia - spiega Giovanni Motta - C’è un’enorme energia che spinge dal basso verso l’alto, per entrare in un mondo che vuole lasciarla fuori. Serve tempo, come per tutti i movimenti. Ma in questo caso, pare che si stia andando più veloci. Il pennello viene sostituito dalla penna ottica. Il disegno su carta è sempre più raro».
È la community a dettare legge
E la via di mezzo? Perché, per superare la paura, non cominciare almeno a essere entrambe le cose? «Io credo che chi si ostini a non voler fare NFT sia un pazzo - non usa mezzi termini Dascanio - Non capisce le potenzialità cui rinuncia. La tecnica è una parte strutturale del racconto. L’importante non è il mezzo, è il messaggio». Rivolto, oggigiorno, a una community che «è tutto - conclude Mauro - Ha un suo manifesto, che non si può legger ma che si conosce». E poi dai, scherziamoci anche un po’ su, prendiamoci in giro. Dice Giovanni Motta che questa è anche «la rivincita dei nerd» .
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