INTERVISTA Che fatica far crescere le imprese ticinesi: «Per andare lontano bisogna cambiare mentalità»

Sara Bracchetti

24/05/2022

10/11/2022 - 16:56

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Il coraggio di Carole Gonzalez, la ticinese che ha lasciato la finanza delle banche per diventare advisor di piccole e medie aziende: un mercato libero e potenzialmente molto fertile, che però si scontra con la scarsa disponibilità a farsi guidare da chi è più esperto.

INTERVISTA Che fatica far crescere le imprese ticinesi: «Per andare lontano bisogna cambiare mentalità»

Tutt’altro che semplice, aiutare le piccole imprese a diventare grandi. Specie in un Ticino di aziende familiari, che guardano il proprio business come si fa con un cucciolo, convinti di sapere quel che è giusto fare e quel che no; persuasi che dipenda tutto dalla propria forza, la passione, l’anima che ci si mette e si trasmette; e diffidenti nell’affidarla a qualche altro che, comunque la si metta, lo fa per soldi.
Ecco perché la scelta di Carole Gonzalez, nel 2006 assieme al marito Federico Foscale, fu vista un po’ come una cosa folle: da lei stessa per prima. Sedici anni dopo, può dire con tranquillità che l’idea di Lombard Network, società di Corporate Finance e Investment Banking con sede a Lugano, è stata cosa più che buona. Anche se, lo ammette, molta strada resta da fare in un mercato, come quello ticinese, ancora troppo ripiegato su se stesso, chiuso, incapace di pensare oltre il proprio mondo piccolino. Proprio per questo motivo la loro decisione di lasciare le banche d’affari, dove entrambi all’epoca avevano un futuro certo, fu qualcosa più di una sfida con se stessi. «Davanti a noi vedevamo un mercato fertile, giovane, fatto di piccole imprese senza cfo che più di altre potevano avere bisogno di advisor», spiega Carole, 42 anni, nata a Locarno e cresciuta in Ticino, imprenditrice, manager e mamma di una bimba di sei. Bachelor in Business studies a indirizzo economico a Londra, master in direzione generale di impresa in Bocconi, racconta come oggi dia «supporto a piccole e medie imprese aiutandole a soddisfare i propri bisogni finanziari».

Dal mondo bancario alle piccole imprese e le loro difficoltà: con che coraggio?
«Fu una scelta un po’ da folli, in effetti. Le banche trainavano bene, i nostri potenziali competitor guardavano solo alle aziende da 50 milioni in su. Proprio per questo, forse: era un settore dove il campo era libero e fertile, c’era parecchio da fare».

Mai pensato che fosse libero perché troppo rischioso, difficile, con scarse possibilità di successo?
«Le possibilità c’erano e ci sono. Ciò che manca è la mentalità. Le piccole imprese fanno fatica ad accettare un advisor: c’è la presunzione di credere che l’imprenditore sappia già tutto ciò che deve fare. E, nel caso in cui si lasci affiancare da un advisor, commette l’errore di dirgli quel che dovrebbe fare».

Invece?
«Un advisor che si rispetti deve analizzare i dati dell’impresa, visitarla, intervistare il management della società, comprendere i mercati di riferimento e quelli potenziali e a quel punto dare un consiglio. Spesso a queste imprese manca la pianificazione finanziaria e da qui comincia il mio intervento».

O la cultura di fare impresa in un altro modo, più articolato. Come si supera l’ostacolo?
«Non è facile. Su dieci incontri, solo uno va a buon fine. Subentra anche il fattore dei costi. Molti imprenditori non se la sentono di affrontarli. Ma l’advisor, cioè colui che spiega come pianificare il finanziamento per lo sviluppo dell’impresa, non può e non deve essere visto in quest’ottica. La crescita non è un costo: è un investimento».

Costo o investimento, al di là definizione resta il fatto che un advisor è, di fatto, un impegno economico: con le risorse che possiede, una piccola o media impresa se lo può permettere?
«"Deve" permetterselo. Deve cominciare a imparare a investire. Una piccola impresa non cresce se non ha strategie finanziarie mirate. Rischia quel che vediamo accadere praticamente ogni giorno: rischia di fallire. Magari ha ottime idee commerciali, buone strategie aziendali, ma non può essere sostenuta se non c’è la finanza».

Quindici anni che lavora con i piccoli: qualcosa da allora è cambiato?
«Qualcosa sì, anche se troppo poco. Ho visto aziende a conduzione familiare che hanno deciso di organizzare l’impresa, con figure esterne che sono entrate a lavorare in esclusiva, come direttore generale per esempio. Questa è la mentalità giusta. Ciascuno deve fare ciò che sa fare meglio e non deve pensare di dover fare tutto. Anche perché poi una famiglia ha degli equilibri interni e non può permettersi che vengano minate da discussioni di business. Una figura imparziale serve anche a mantenere l’armonia, dentro e fuori l’azienda, cosa che non è irrilevante».

Quante imprese si sfaldano invece per questo?
«Purtroppo tante. Ho visto imprenditori vendere non solo per mancanza di ricambio generazionale. Il ricambio ci sarebbe potuto essere, ma mancava la capacità, da parte dei figli, di gestire insieme l’azienda».

Si poteva evitare?
«Non è così facile, ma certo manager interni, ceo o cfo, potrebbero creare l’equilibrio necessario, oltre ad abbattere il rischio di impresa che è più forte quando tutto dipende da una famiglia».

In questo processo di cambiamento lento, che cosa resta di importante da fare?
«La famiglia deve imparare a pensare che l’impresa non è un figlio: è una cosa, è un business. Deve volergli bene, ma non attaccarsi a essa in maniera così profonda. È una grande opportunità della vita, ed è necessario continuare a investire tempo e denaro per portare il business al livello più alto possibile, ma senza essere troppo viscerali».

Quanta strada e quanto tempo ancora manca al traguardo?
«Il Ticino è molto indietro. Non ha fatto e non sta facendo il passaggio giusto. La responsabilità è anche della politica, la quale non ha realizzato fino in fondo che creare impresa sul territorio arricchisce il Paese. In Ticino manca impresa, e tanto. Manca il sostegno da parte del sistema bancario. Si parla molto di startup, ma il tasso di mortalità è altissimo: il rischio è troppo alto e le startup non riescono a trovare la finanza con cui fare sviluppo. Io credo che sia necessario creare una vera piazza di impresa. E dare spazio alle aziende straniere che vogliono investire qui. Penso a uffici occupati, non capannoni».

In un mercato così difficile, come si fa a sopravvivere?
«Il mio mercato è anche italiano. Come ho detto, il Ticino ha troppa poca impresa per dedicarsi solo ad essa. Al momento stiamo seguendo un paio di aziende locali. Siamo appena usciti dal Covid, è arrivata la guerra: si fa molta fatica a fare strategie d’impresa in uno stato di incertezza così forte».

Qualcosa è migliorato con l’allentamento delle restrizioni Covid?
«Abbiamo l’Ucraina. E, che derivino dalla pandemia o dal conflitto, gli investitori qualificati non finanziano le aziende per coprire buchi».

Dimentichiamo il presente. Siamo in una situazione normalizzata, senza Covid e senza guerra. Ci racconti il suo mestiere: lei che cosa fa quando viene contattata da un’azienda?
«La prima cosa è visitare l’impresa, capire il contesto in cui opera. Parlare con il management e guardare anche i dipendenti. Io chiedo sempre di vederli: visi cupi oppure impegnati ma sorridenti hanno molto da dire a un advisor. Non si può pensare solo al prodotto: bisogna curare anche il personale, altrimenti c’è qualcosa che non va».

A quel punto?
«A quel punto chiedo un elenco di documenti necessari a conoscere l’impresa sotto il profilo economico, finanziario e patrimoniale. E decidiamo la strada migliore da seguire, sulla base dei desideri espressi dall’imprenditore: diciamo se si può portare avanti l’operazione che ha in mente o in quali modi differenti bisognerebbe agire per arrivare al risultato. Si deve creare anche un certo feeling: il management deve avere fiducia nell’advisor cui affidare il mandato».

Quante volte le è capitato di correggere?
«Praticamente sempre. Il bravo advisor deve sapere dire al cliente ciò che deve fare. Non serve a nessuno lo yes man o la yes woman. Bisogna essere consapevoli che l’imprenditore non sa abbastanza di finanza. Il confronto è giusto e benvenuto, ma non si deve arrivare al caso in cui dia ordini all’advisor, pretendendo che li accolga anche se è in disaccordo».

Succede?
«Capita. Se qualcosa che l’imprenditore vuole non ha senso, il compito dell’advisor è quello di dare il suggerimento giusto perché un senso lo trovi. Oppure, piuttosto, si rinuncia al mandato. Questo è il vero scoglio: non accettare il consiglio, avere la supponenza di sapere tutto perché "io conosco la mia impresa, è nata con me 50 anni fa". Davanti a un atteggiamento di questo tipo, per me c’è chiusura».

Ci sono settori più aperti di altri?
«Tutti i settori hanno bisogno di supporto. Poi, ciascun advisor ha delle predilezioni. Io, per esempio, prediligo l’industriale. Mi piace la farmaceutica, il food».

Tematiche ambientali?
«Non piacciono molto al sistema finanziario. Il mondo green è interessante, ma il mondo finanziario non è pronto».

Lo sarà mai?
«Siamo ancora molto lontani. E troppo dipendenti dall’energia tradizionale, come l’attualità sta dimostrando».

Non sarebbe, proprio per questo, il momento di investire sulle rinnovabili?
«Sì, ma il percorso è molto lungo. S’investe oggi per avere risultati fra quindici, vent’anni: è raro trovare chi abbia voglia di tenere il patrimonio investito su un periodo così ampio. Il Covid prima, la guerra oggi fanno preferire investimenti liquidi e comunque per periodi non superiori ai cinque anni».

Carole, lei è donna in un mondo di uomini. Si è mai sentita penalizzata o non presa adeguatamente in considerazione?
«Se c’è qualcosa che ho sofferto, forse è stata di più l’età. Il mio percorso in Lombard Network è cominciato quando avevo 26 anni: troppo giovane per essere brava. Anche adesso che di anni ne ho 42 vengo vista ancora come molto giovane e la mia capacità è messa in dubbio per mere ragioni anagrafiche».

Come ha fatto ad andare avanti?
«Ho dovuto inventarmi modi diversi di comunicazione e di approccio. Per fortuna hanno funzionato. Quanto invece al fatto di essere donna, ho trovato uomini che avevano piacere a lavorare con me perché trovavano le donne più organizzate e precise, altri che nemmeno riuscivano a guardarmi negli occhi e preferivano rivolgersi a mio marito. Lo trovo molto maleducato. Io non mi sento inferiore a un uomo, né un uomo deve sentirsi inferiore a una donna. Siamo diversi: sarebbe bello prendere il buono di entrambi e creare una sinergia, invece di opposizioni».

Quanto l’ha aiutata essere in società con suo marito: da sola, o con una partner, avrebbe avuto successo analogo?
«Avrei trovato più difficoltà. Avere un uomo accanto, di cinque anni più grande, dà più sicurezze. C’è anche il fatto che iniziare da soli è difficile di per sé. In due ci si prende per mano».

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