Prossimo ospite al Metaforum, Ambrosini spiega come la blockchain oggi sia ancora troppo complicata, ma possa diventare qualcosa di accessibile anche «a mia nonna»: a patto che si lavori per togliere gli ostacoli che ora, a dispetto dei proclami, la rendono esclusiva e di nicchia.
Il dubbio c’è e c’è sempre stato: che la definizione di blockchain come luogo davvero democratico fosse un po’ una contraddizione in temini. Perché è vero che è svincolato dall’autorità centrale, privo del controllo che oggi soffoca l’espressione di se stessi; ma anche che, finora, è prerogativa di una nicchia, capace di utilizzare gli strumenti che regolano un accesso tutt’altro che semplice o semplificato. Ipotizzare che possa trasformarsi fino quasi a snaturarsi, passare da oggetto nelle mani delicate degli esperti di tecnologia a dispositivo popolare e "nonna-friendly", dal titolo dell’intervento del ceo di Rubicon Luca Ambrosini al prossimo Metaforum di Milano il 7 giugno, suona quantomeno visionario.
Una blockchain che si apre ai profani, sottoforma di app e Nft che, prima o poi, saranno alla portata di tutti e daranno il via alla rivoluzione. Per Ambrosini, laureato in ingegneria informatica alla Supsi, videogiocatore semi-professionista e "crypto enthusiast" dal 2013, fino alla fondazione dell società leader nello sviluppo di progetti di tokenizzazione e diffusione della tecnologia web3 Rubicon Studio, non è utopia: serve solo del tempo, e neanche poi così tanto. «Almeno una decina d’anni», ma cosa vuoi che sia, davanti al progresso che si fa realtà per tutti. Aprendosi anche al profano, che oggi guarda da debita distanza, metà incuriosito metà spaventato. Non è il caso di pensare all’anziano che fatica a destreggiarsi anche col telefonino: il profano cosiddetto è qualcosa di più comune è diffuso. In fondo, siamo noi, che ci infariniamo di sapere ma poi ci fermiamo, senza osare, bloccati dalle difficoltà che permangono. «Il profano è una persona con competenze tecniche medie, che sa usare le app sullo smartphone ma non ha un wallet e non usa la criptovaluta». La maggioranza della gente, insomma, dato che «oggi solo l’1% del mondo, forse meno, è in grado di utilizzare la blockchain».
Ambrosini, qualcosa non torna. Tutti ne chiacchierano, pochissimi la praticano. Come mai?
«Il problema è che tanta gente, oggi, parla di blockchain, ma alle parole si ferma. Non la utilizza nella quotidianità e non si rende conto delle problematiche concrete».
Ce le spieghi lei.
«Prendiamo un’operazione facile, come scaricare Whatsapp. Una volta attivata sul telefono, usarla è semplice. La blockchain dovrebbe essere la stessa cosa, senza creare difficoltà all’utente. Invece, oggi per interagire con un’applicazione sulla blockchain è necessario crearsi anzitutto un wallet. C’è chi nemmeno capisce bene che cosa sia. È dissonante a livello cognitivo. Questo vale per qualsiasi uso della blockchain, anche per chi voglia sfruttarla per fare un post libero su social media decentralizzati: serve un wallet per cominciare. Tutto questo è scoraggiante».
Va bene, ma io posso usare i social media anche senza passare per la blockchain. Che cosa mi perdo?
«La blockchain è decentralizzata. Significa che quello che faccio non può essere censurato, perché è mio e solo mio. Sulle applicazioni tradizionali, invece, ciò che faccio è di qualcun altro. Instagram, per esempio: l’audience che ho non è davvero mia. Creiamo contenuti su piattaforme di terzi. Che, un giorno, per un motivo o per l’altro, potrebbero decidere di chiudere il nostro account».
E nella blockchain? Nessuna regola?
«Nel mondo della blockchain le regole sono definite a priori. Non posso avere brutte sorprese».
Il problema è arrivarci.
«Esattamente. Per avvicinarsi alla blockchain, oggi servono giorni di studio. Non è pensabile che tutti prendano questa iniziativa».
Dunque che si fa: si diffonde la cultura? Si prova a insegnare la blockchain?
«Noi suggeriamo un approccio alternativo. Ad oggi, per fare un post sulla blockchain devo creare un wallet, poi caricare delle criptovalute, poi pagare: tre complessità che devono essere annullate. La nostra proposta è che di questo si facciano carico gli sviluppatori. Per l’utente l’uso della blockchain deve essere semplice e gratuito».
Qualcuno, se non l’utente, se ne deve assumere però i costi. Perché farlo?
«Il motivo è valoriale. Se la libertà è un valore, allora la persegui. Certo, all’inizio sarà difficile: la platea è limitata. Gli utenti dei social media tradizionali sono molti di più. Ma, quanto più si entrerà nell’ottica della libertà come un valore, tanti più utenti arriveranno e la community si ingrandirà».
Solo vantaggi?
«Per il pubblico sì. Per altri, non solo. Si tratta di qualcosa di complesso da sviluppare e con un fattore 10 di costi. Un social su blockchain costa dieci volte di più».
Dunque?
«Dunque è un ideale. Per uno sviluppatore è una scelta scomoda: avere però il controllo completo di ciò che si fa è una comodità. Dà potere. Ma la spinta affinché si arrivi a questo punto è dalle persone che deve venire. Devono scegliere la blockchain per il valore che porta. E i vantaggi».
Facciamo qualche esempio?
«Pensiamo alla finanza decentralizzata. Sulla blockchain, posso avere un prestito con un semplice click, in pochi secondi. Denaro che proviene da qualsiasi parte del mondo, senza commissioni. La libertà dà efficienza».
Quali sono i settori con le maggiori opportunità di sviluppo "profano" nella blockchain?
«Sicuramente il sistema dei pagamenti, che è vecchio e subisce una forte pressione regolatoria. Poi la finanza e gli investimenti. Noi stiamo creando una tokenizzazione degli oggetti di lusso, così da renderli più democratici. Per esempio, di un orologio di valore posso comprare solo un 1% o ciò che è alla portata del mio portfoglio».
Ambrosini, lei parla di blockchain nonna-friendly. Davvero i nonni hanno bisogno di questo?
«Ovviamente è una provocazione. I nonni no, ma i genitori sì. Oggi abbiamo a che fare quotidianamente con diverse app, che si tratti di Whatsapp, Facebook o l’e-banking. Meno intermediari, più soldi: pensiamo solo che oggi Visa incamera l’1% delle transazioni di tutto il mondo. Con la blockchain, risparmieremmo quei costi».
Non c’è il rischio che si crei una barriera generazionale?
«Al momento esistono due correnti di pensiero. Una è quella che invita a imparare la blockchain. L’altra è quella secondo cui la parte complessa è da caricare sugli sviluppatori. La gente non deve neanche capire che cos’è. Deve solo sapere che usa qualcosa in modo libero».
Tempistiche?
«Almeno dieci anni».
Ambrosini, lei ha parlato molto di soldi. Pagamenti, finanza, investimenti: non c’è altro per cui la "blockchain per tutti" possa rivelarsi utile?
«Non penso che la blockchain serva per tutto. Perché ha dei benefici ma, come detto, anche dei costi. Funziona quando si è in un contesto globale, dove c’è bisogno di libertà e non censurabilità. Per altri settori, non c’è vantaggio».
Che ne pensa della comunicazione?
«Sicuramente comunicazione e media potrebbero trarne molto beneficio. L’informazione non potrebbe più essere bloccata, chiunque potrebbe farla in modo libero da qualunque parte del mondo».
Questo non porrebbe un problema di legalità? Rischio di diffamazione, per esempio.
«La legalità verrebbe difesa dal concetto di reputazione. Se diffamo, perdo autorevolezza, dunque audience. Devo sostanziare bene ciò che vado a pubblicare. Del resto, diffamare è un po’ come affiggere un manifesto anonimo sui muri della stazione di Lugano. Scrivere su internet è facile, ma poi è il sistema stesso a operare una selezione e a crearsi gli anticorpi che combattono le fake».
E chi compie reati?
«Il fatto che la blockchain sia anonima è un falso mito. In realtà nella blockchain si è tracciabili. Non è facile essere anonimi e truffatori. Proprio questa tracciabilità impone di costruire delle reputazioni. Ciò detto, non posso pretendere che un giornalista diventi un mago del computer e della blockchain. Devo semplificargli la vita».
Lei ipotizza dieci anni di tempo. Non le pare di essere ottimista?
«La blockchain esiste da quattordici anni. La diffusione è lenta ma continua. A Lugano ormai una cinquantina di negozi accettano criptovalute. Le persone cominciano a percepirla come un valore. Fra dieci anni, possiamo presumere che la diffusione sarà almeno 100 volte superiore a oggi. Ciò non vuol dire che tutti useranno la blockchain o che la blockchain sarà usata per qualsiasi cosa. Non avrebbe senso. Ma sono pronto a scommettere che tra dieci anni useremo un’applicazione su blockchain con la frequenza di almeno una volta a settimana».
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