Il presidente della Ticino Blockchain Technologies Association spiega i retroscena di una realtà che è molto più di quello che si crede e dove le criptovalute giocano un ruolo quasi marginale. «Qui si fa democrazia»
C’è chi la vede, e a volte la vive, come una maniera di fare soldi facili. Un’opportunità di investimento, se non gioco di speculazione: da cui le storture che fanno crollare valori irrealistici, i conti gonfiati e i patrimoni che d’un tratto si prosciugano. Ma la blockchain, o il bitcoin come a torto si sintetizza il concettoquando è arcano, è altro, a ben guardare. È una forma alternativa di economia, una democratizzazione degli scambi, priva degli intermediari che fanno affari a svantaggio altrui. «La blockchain nasce per questo: per decentralizzare, togliere l’economia dalle mani di pochi», osserva Giacomo Poretti, presidente di Ticino Blockchain Technologies Association, che di questo mondo nella sua versione pura e idealista ha fatto una ragione d’esistenza.
Informatico di formazione, consulente bancario e pioniere delle tv digitali, si è avvicinato alla blockchain una decina d’anni fa, per curiosità e per fatale attrazione. Ne ha intuito il potenziale, non di guadagno ma di futuro alternativo e più giusto dell’attuale, racconta; e ha cominciato a lavorarci prima in maniera indipendente, poi nel circolo gravitazionale della Supsi, cui sempre più provati si rivolgevano per trovare supporto e competenze. Così è nata Ticino Blockchain Association, nel 2020: per fare ordine e offrire un interlocutore unico a un mondo che stava crescendo a vista d’occhio, sulla scia di interessi ed esperimenti sempre più numerosi e importanti; selezionare progetti e aiutarli a trovare una strada.
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«Oggi si confonde la blockchain con le monete che veicola, ma la blockchain vuol dire molto altro». Vuol dire democrazia, in certo senso battaglia contro il capitalismo più severo, dove pochi e abili si arricchiscono traendo profitto da rapporti commerciali terzi e sconosciuti. «Le criptovalute sono solo uno strumento funzionale a un nuovo modello di società. Sono la conseguenza, o la benzina, di tutta la tecnologia che stiamo sviluppando». Provate a vederla così e allora anche il crollo del bitcoin non sembrerà così brutto; non la dichiarazione di fallimento di un sistema, ma la dimostrazione che il sistema ha poco a che fare con il modo in cui lo si è finora semplificato a scopo di profitto. «La blockchain è nata così, dopo la crisi del 2008, dall’iniziativa di chi ha cominciato a pensare che non fosse giusto lasciare tutto nelle mani di pochi, accentrato e in balia di banche con il controllo totale della situazione, senza intermediari. Così è cominicata un’operazione di decentralizzazione, verso una nuova economia».
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Poretti, raccontata così sembra un sogno. Non è un’utopia?
«Oggi siamo ancora indietro. Ci troviamo a metà strada e in una situazione ancora parecchio controversa, contestata da più parti per questioni legate alla sicurezza e al consumo di energia. Ma il percorso è avviato. Stiamo provando a costruire un futuro alternativo».
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Come siamo arrivati fino a qui? E soprattutto: dove siamo oggi? L’impressione è ancora di grande confusione e poca utilità. Non trova?
«Quello che vediamo oggi è una versione evoluta e una sintesi dei tanti tentativi fatti in passato. In Canton Ticino, per esempio, Chiasso fu il primo comune ad accettare il pagamento di tasse in Bitcoin, ma ad approfittare dell’opportunità fu forse una società soltanto. Nessuno aveva le conoscenze adeguate e gli strumenti. Ancora oggi è un po’ così. È facile dire "Promuoviamo le criptovalute". Difficile è attuare il proposito su larga scala».
A che pro tentare?
«In questa fase storica, il valore aggiunto per il cittadino è ancora troppo poco chiaro. Le criptovalute sono strumenti ancora lontani dall’uso comune. Oggi non si va a comprare la pizza in bitcoin, per intenderci».
Vuol dire che accadrà?
«Io credo di sì, ma penso in particolare alle monete tradizionali. Quando sarà possibile utilizzare il franco digitale, cioè una copia esatta del franco su blockchain, si diffonderà una nuova modalità di pagamento».
Un po’ come quando si cominciò a pagare con le carte di credito o con il telefonino?
«In un certo senso. Pensiamo a Twint. All’inizio era sconosciuto. Oggi lo usano 4 milioni di svizzeri. La criptovaluta dovrebbe arrivare esattamente lì. Se la blockchain riuscirà a semplificare il mondo dei pagamenti, se ci sarà un vantaggio pratico, sarà la svolta».
Qual è il vantaggio?
«Oggi pochi. Ma, una volta a regime, la blockchain potrà per esempio ridurre le spese di commissione e automatizzare tutta una serie di processi oggi slegati dalle singole transazioni. A questo punto i vantaggi saranno evidenti. E l’uso di questi sistemi verrebbe spinto verso l’alto. Che si tratti di bitcoin, di franco digitale o di qualsiasi altra valuta digitale».
Pare che la Svizzera ci creda parecchio. A cominciare da Lugano, che qualche mese fa ha anche presentato un piano per lanciare la blockchain, il Plan B. Da dove viene tutto questo entusiasmo?
«Lugano sta facendo scuola. Anzitutto, ha parificato la valuta digitale al franco e ha creato i Lugapoint, che valgono un centesimo di franco l’uno. Il sistema è quello dei punti fedeltà, ma contenuti in un wallet digitale basato sulla blockchain. A finanziarlo sono gli esercenti: acquistando in negozio, il cittadino riceve il 10% dell’importo pagato in Lugapoint, che può spendere a sua volta ma solo a Lugano, nei punti vendita aderenti».
Che cosa c’è di diverso rispetto al sistema tradizionale dei punti fedeltà?
«Il principio è il medesimo: di fatto, è uno sconto del 10% al cliente, con l’auspicio che torni a comprare. L’idea è nata durante il Covid, quando il Comune decise di ricompensare gli operatori sociali con mille franchi a testa. Si voleva però che quel denaro rimanesse nel circuito di Lugano. La moneta digitale così concepita poteva essere una soluzione interessante, anche perché dispensava dal toccare monete e banconote, a rischio contagio. Il progetto poi si è allargato. Oggi, con l’apposita app di Lugano Card, ciascun cittadino può conoscere il saldo e spendere nei circa 200 esercizi convenzionati: strutture comunali, negozi, ristoranti».
Io, negoziante, che cosa ci guadagno?
«Sul momento niente, anzi in un certo senso ci perdo. Questo il motivo per cui non tutti gli esercizi aderiscono. Non possono: per alcuni il margine è troppo basso. Per gli altri, il "guadagno" è un incentivo al ritorno della clientela».
Come si gestisce la contabilità?
«La contabilità è complicata. Già è complicato gestire una multidivisa, figurarsi la blockchain. Gli esercizi non sono pronti ad avere a che fare con un proprio wallet digitale. Ma ci stiamo lavorando. Come Supsi siamo coinvolti in un importante progetto di ricerca al riguardo».
Siamo ancora agli inizi, eppure già vogliamo andare oltre. Il Plan B vuole addirittura diffondere una criptovaluta. Non è presto?
«Bitcoin e Tether, che a differenza del bitcoin è una stable coin, ha un valore definito pari a un dollaro. Tether ha scelto Lugano per lanciare la sua moneta sul territorio, finanziando il Plan B. Uno dei pilastri del Plan B è quello di consentire al cliente di pagare in criptovaluta, permettendo comunque all’esercente di ricevere l’importo in franchi attraverso un cambio automatico ed evitandogli quindi problematiche di cambio. Si tratta di un modo per rendere attrattiva Lugano, segnalarla al mondo».
Non solo criptovalute: vuole attrarre anche cervelli dall’estero. Qui non ce ne sono abbastanza?
«Le competenze in ambito blockchain sono scarse a livello mondiale. Il nostro compito come università è quello di formare i futuri esperti del settore e Lugano vuole diventare capitale dello sviluppo tecnologico a livello europeo. Verrà creato un hub, dove gli uffici di varie società attive nella blockchain saranno vicine e potranno scambiarsi tecnologie e competenze».
Perché venire a Lugano? Perché la Svizzera?
«Perché è un ambiente dinamico, vivace e ricettivo. La Finma, autorità di vigilanza sui mercati finanziari, è più aperta che altrove. Ci sono banche che movimentano i conti cripto, mentre la finanza tradizionale è ancora troppo diffidente sulla provenienza dei fondi. Per questo, da anni, diverse società si rivolgono alla Svizzera».
Come vengono gestite?
«Agli inizi, si rivolgevano sporadicamente alle università in cerca di competenze utili a realizzare un’idea, sfruttando il sistema innovazione svizzero e i fondi messi a disposizione da Innosuisse, l’agenzia per l’innovazione svizzera. Da quattro o cinque anni, quando le società più attente hanno deciso di buttarsi sulla blockchain, sulla finanza decentrata e l’identità digitale, ciascuna con il proprio obiettivo di business, gli accessi si sono moltiplicati. Ho visto passare tanti progetti. L’associazione è nata proprio per creare un interlocutore unico e definito, in grado di gestire proposte sempre più numerose e variegate e creare sinergie fra le diverse aziende del settore. È un contenitore dove sviluppare innovazione, a partire da un tavolo di discussione».
Non che sia cambiato troppo. Oggi si parla di metaverso, ma ancora pochi capiscono bene che cosa sia. Vuole provare a spiegarlo lei?
«Il metaverso è un mondo virtuale sviluppato attraverso la blockchain e che funziona tramite le criptovalute, con cui si paganoi i diversi servizi: l’affitto di spazi virtuali, biglietti, eventi, giochi. Se nel mondo reale le criptovalute sono un opzione, nel metaverso sono un obbligo: sono l’unica modalità di pagamento al suo interno. Le previsioni parlano di volumi giganteschi che comunque, al momento, sono solo una frazione dei volumi dell’economia reale. Fintanto che le persone guadagneranno franchi, le capacità di spesa saranno circoscritte. Oggi l’economia reale è ancora molto staccata da quella virtuale».
Paura? Resistenza? Come se lo spiega?
«Uno dei problemi più grossi è rappresentato dalle password e dalle difficoltà a conservarle. Qui non c’è un intermediario che ti viene in soccorso, non esiste il classico bottone "password dimenticata": in questo mondo, sei tu il padrone delle tue cose. Se perdi la password, hai perso tutto. È capitato a me per primo, con 200 franchi acquistati agli albori. Oggi sarei ricco».
Non c’è anche un problema di sicurezza?
«La criptografia legata alla generazione di una password è tale che le probabilità di risalire ad essa è un numero impronunciabile con settantasei zeri, più alto cioè di tutti gli atomi presenti sulla terra. C’è chi sostiene che le future generazioni di computer riusciranno a risalirvi più facilmente, invece. Sarebbe la fine della blockchain. Ma anche la criptografia si sta evolvendo per contrastare il rischio».
E che cosa dice riguardo al consumo di energia?
«La blockchain usa energia come la usano tutti i sistemi digitali. Ma i nuovi sistemi di consenso ne usano meno rispetto ai primi. Io non sono così sicuro che la somma dell’energia consumata adesso da tutti gli smartphone presenti nel mondo, o dai computer della finanza tradizionale, sia inferiore a quello di cui la blockchain necessita. Solo che, in questo caso, c’è la volontà di screditare una nuova tecnologia da parte dei più scettici».
Dove un’altra sigla che si sta facendo strada è Nft. Le piace?
«È una realtà ancora controversa, dove regna parecchia confusione fra opera digitale, certificato digitale e diritto di un’opera digitale nel mondo reale. L’Nft è un mezzo digitale per fruire dell’arte in una maniera nuova, ma non per forza l’Nft è legato unicamente al mondo dell’arte».
Fruire? Sicuro?
«L’opera digitale può essere proiettata su uno schermo, come una volta si appendeva un quadro. Un tempo l’arte era solo per il mondo reale. Oggi per entrambi».
C’è solo l’arte? L’Nft a che cos’altro si può prestare?
«Con l’Università, per esempio, ci stiamo occupando di un progetto che riguarda i biglietti sotto forma di Nft. Un po’ come il vecchio biglietto aereo scaricato da internet, ma più sicuro: non si può falsificare, non si presta alle truffe e i profitti vengono distribuiti equamente in automatico, senza intermediari, che si tratti di un volo o di un evento musicale, per esempio. È anche una maniera molto efficace di gestire il secondo mercato. L’Nft si presta anche molto bene al concetto di identità digitale».
Poretti, la blockchain è più affascinante o più spaventosa? Dove stiamo andando?
«In nessun posto diverso da quelli dove già andiamo. Di mondi virtuali si parla da anni, di nuove forme di pagamento ce ne sono sempre state. Solo che potremo andarci con mezzi differenti. È un modo nuovo di fare le stesse cose, aggirando problemi generati nel mondo reale. Lo scopo vero della blockchain è questo: non speculare e guadagnare con i bitcoin, ma risolvere problemi che oggi, in questo nostro mondo, ancora non hanno soluzione».
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