Acuita dal Covid, la difficoltà è generalizzata e grave: non tutti possono permettersi di organizzare corsi di formazione in azienda.
Ormai si sa: il Covid non ha avuto solo demeriti. C’è chi perfino lo ringrazia, per aver portato affari e soldi in cassa; chi ne ha approfittato per scommettere e vincere altrove; chi l’ha usato come pretesto per innovar se stesso e allargare prospettive.
Chi, semplicemente, per mettere da parte le difficoltà, sopraffatte da un’emergenza ben più importante. Per esempio: per un attimo, il virus ha fatto scordare alle piccole e medie imprese che il personale specializzato cominciava a scarseggiare. Ora che però si tira il fiato, ritorna la preoccupazione: e si fa più forte, aggravata dagli effetti negativi della pandemia.
Scarse competenze dirigenziali
Due terzi delle pmi che assumono hanno riscontrato difficoltà "molto o alquanto grandi" negli ultimi tre anni, rivela lo studio condotto da Credit Suisse, individuando carenze più marcate per quanto attiene le competenze dirigenziali e di gestione di progetto, nonché le competenze specialistiche. Regione di appartenenza, dimensioni aziendali e ambito di occupazione hanno creato qualche distinguo, ma, di massima, il problema è stato ed è ancora diffuso e generalizzato. Tanto che è venuta meno anche la fiducia nel futuro: oltre una impresa su due ritiene che questa condizione si inasprirà, invece di risolversi. Già impegnativa, la ricerca di collaboratori si farà ancor più complessa.
Addio baby boomer: come rimpiazzarli?
A generare aspettative al ribasso non è solo una ripresa economica incerta. È una società che invecchia inesorabile, un lavoro sempre più flessibile cui non tutti sono pronti e, non ultimo, il percorso di digitalizzazione cui l’imprenditoria è chiamata, con creazione di nuovi profili. Il 36% delle pmi è pronto a giurare che il pensionamento dei baby boomer lascerà vuoti ardui da colmare.
Il sistema duale è "ottimo", ma insufficiente
Eppure, in apparente contraddizione con un quadro che sembrerebbe alludere al contrario, il sistema educativo svizzero ne esce con onore. Ottimi i voti assegnati dalle imprese: la maggioranza ritiene che sia "ben allineato con le esigenze delle aziende"; anche la formazione professionale classica, a prescindere dalla specificità del settore terziario, riceve lodi dagli intervistati, ottocento in tutta la Confederazione. A originare tale compiacimento è senza dubbio il sistema duale, celebrato per la sua efficacia.
L’attestato non basta: si va in università
Resta il fatto che i requisiti di reclutamento crescono costantemente, assieme al progredire della digitalizzazione. Evidente, da qualche tempo a questa parte, un netto spostamento verso le formazioni terziarie e l’università. A un’analisi più approfondita, si comprende come la formazione professionale di base rappresenti sempre più spesso un trampolino di lancio per un successivo diploma: la formazione professionale, insomma, non basta più a placare le ambizioni. Non si vuole smettere di crescere e si punta a qualcosa di avanzato.
Le soft skill non vanno sottovalutate
Ne consegue, però, che anche il sistema educativo svizzero dovrebbe adeguarsi alle esigenze che emergono più pressanti di una volta. Nozioni e competenze ordinarie rigidamente insegnate non bastano più: una pmi su due auspica modalità più dinamiche e un’attenzione maggiore alle "soft skill" come qualcosa da imparare in maniera strutturata, senza che siano lasciate all’autonomia del singolo.
Il 77% offre formazione in azienda
Se poi ci si sofferma sulla formazione continua, ecco che si trova una soluzione possibile alla problematica della carenza di personale specializzato, da contrastare in azienda senza soluzione di continuità. Non è un caso che il 77% delle pmi, secondo il sondaggio di Credit Suisse, offra il perfezionamento professionale all’interno: una scelta obbligata, dovuta all’impossibilità di trovare competenze specifiche fuori. L’83% segnala l’urgenza di investire sul personale, pena il non riuscire a stare al passo con lo sviluppo tecnologico.
Ecco come si aumenta la produttività
In questo modo, riconoscono le aziende, non solo si resta sul mercato. È opinione diffusa che il perfezionamento professionale sia in grado di incrementare le prestazioni e la produttività dei collaboratori (92%), l’attrattiva dell’azienda nei confronti dei futuri collaboratori (90%) e la loro fidelizzazione (89%).
Il problema: mancanza di tempo e denaro
Poche, però, sono le aziende che si dichiarano soddisfatte di ciò che da sole riescono a ottenere. L’idea di poter fare da sé, in azienda, ha dei limiti grossi: mancanza di tempo, incapacità organizzativa e di pianificazione sono ostacoli difficili da scavalcare senza aiuto. Ecco spiegato perché le microimprese sono quelle che meno scommettono sulla formazione continua: non per scelta, ma per impossibilità di fare altrimenti.
Puntare sui talenti interni: non tutti lo fanno
Da non sottovalutare poi, mette in guardia qualcuno, la mancanza di interesse da parte dei collaboratori, affatto peregrina. L’altro lato della medaglia sono invece i talenti cresciuti in casa. Il 13% delle pmi garantisce, a suo dire, priorità alle giovani leve nell’occupazione di posizioni dirigenziali; il 43% aggiunge di farlo "spesso". Fra i benefici, oltre a risparmi di costi e tempo, anche l’aumento della motivazione dei collaboratori, più appagati dunque propensi a dare il massimo, anche a fini di carriera. A questo punto, c’è da interrogarsi sul 21% che, al contrario, non prende nemmeno in considerazione i giovani come potenziali dirigenti.
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