Ma quale settimana corta: le nostre imprese deludono anche sul part-time

Sara Bracchetti

27 Giugno 2023 - 12:09

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Secondo lo studio Axa-Sotomo, difficilmente le pmi scendono sotto a una percentuale dell’80%. Uno svantaggio soprattutto per le donne: solo una impresa su tre si dichiara disposta a favorirne l’occupazione attraverso orari flessibili e job sharing.

Ma quale settimana corta: le nostre imprese deludono anche sul part-time

Una settimana lavorativa di quattro giorni invece di cinque? Oppure un tempo parziale, grazie al quale bilanciare, secondo le proprie esigenze personali, ambizioni di carriera e vita privata? Brutte notizie per i dipendenti delle piccole e medie imprese svizzere: che si dichiarano favorevoli alla flessibilità, sulla carta dei sondaggi, ma di fatto tendono poi a opporre resistenze sempre più forti. E anche il part-time diventa una mera definizione, non riuscendo spessissimo a scendere al di sotto dell’80%.

Il ribaltamento dei rapporti di forza

Un guaio soprattutto per le donne, che faticano a reinserirsi nella realtà professionale, specie quando si ritrovano occupate in attività tipicamente maschili: in questo caso soprattutto, il tempo parziale è qualcosa che viene guardato con sospetto dai datori di lavoro, ancora abituati a considerare l’uomo un professionista a tempo pieno. Nonostante il cambiamento demografico sia oggi più favorevole ai dipendenti, avendo ribaltato i rapporti di forza a causa di un mercato sempre più contratto, le aspettative della popolazione lavoratrice vengono ancora oggi svilite. Lo mette nero su bianco uno studio condotto da Axa, che in collaborazione con l’istituto di ricerca Sotomo lo scorso febbraio ha condotto interviste in 301 imprese elvetiche con almeno cinque dipendenti. Per scoprire che la teoria stenta a tradursi in atto.

Esigenze dei lavoratori vs bene dell-economia

Secondo infatti le dichiarazioni delle imprese, le pmi svizzere mostrerebbero per esempio un atteggiamento positivo nei confronti del lavoroa tempo parziale: a patto però di non scendere sotto l’80% e con il perenne dubbio se, su larga scala, il modello del tempo ridotto ciò qualcosa che possa fare bene all’economia. La risposta, ovviamente, tende al no.

I piccoli meno disponibili dei grandi

Ecco perché poi si crea un distinguo marcato, secondo le dimensioni delle imprese interessate. «Nel dibattito sul tema, si parla spesso in maniera indistinta di lavoro a tempo parziale come concetto generale - osserva Michael Hermann, direttore di Sotomo - Concretamente, tuttavia, sussiste una notevole differenza se parlando di lavoro a tempo parziale si intende un grado di occupazione del 40 per cento oppure dell’80 per cento». Davanti alla domanda a quanto debba ammontare il grado di occupazione affinché le collaboratrici e i collaboratori possano adempiere integralmente i propri compiti e obblighi, i risultati dello studio indicano che per le piccole imprese fino a 9 dipendenti la soglia accettabile è dell’80%; medie e grandi tollerano invece un 60%.

Le eccezioni di commercio, istruzione, sanità

La soglia del 50% è invece un sogno concesso, di tanto in tanto, nelle aziende operative in settori dove l’occupazione femminile è predominante, come il commercio al dettaglio, l’istruzione e il settore sanitario e sociale. «Il perdurare della ripartizione tradizionale dei ruoli per le faccende domestiche e l’accudimento dei figli fa sì che il lavoro a tempo parziale sia diffuso e istituzionalizzato nelle professioni tipicamente femminili, mentre le possibilità di lavoro a tempo parziale nei lavori tipicamente maschili restano limitate - continua Hermann - È quindi lecito chiedersi in quale misura la possibilità di svolgere un lavoro a tempo parziale abbia effettivamente a che fare con l’attività in sé e quanto invece dipenda dal perpetuarsi dei ruoli tradizionali».

Ecco chi rema contro il part-time

Come ragione contro un part-time più abbondante, il 43% delle pmi interpellate ha opposto gli oneri di coordinamento e di pianificazione, nonché le aspettative della clientela in termini di orario di presenza del personale (41%). Poco più di un terzo (35%) si sofferma su un determinato orario di presenza richiesto dal lavoro specifico.

Una norma di Stato? No, grazie

Ciò detto, il lavoro ridotto deve restare, nel sentimento dei datori di lavoro, una concessione delle imprese e non qualcosa di regolamentato per legge. Mentre nel 2022 l’introduzione di una settimana di quattro giorni generalizzata veniva giudicata positivamente ancora dal 39% degli intervistati, nel 2023 questa quota è scesa al di sotto di un terzo (31%). «Il calo dei consensi potrebbe essere correlato al fatto che nell’ultimo anno la settimana lavorativa di quattro giorni è assurta a vero e proprio tema mediatico. E il dibattito ha evidentemente alimentato il clima di scetticismo tra le Pmi», spiega Michael Hermann.

Ecco che cosa succede al salario

Come poi questo si debba tradurre in conseguenze sul salario, genera divergenze. Soltanto il 39% ritiene che la settimana corta non debba comportare alcuna riduzione dei compensi economici. Il 30% è propenso ad accettare invece un taglio, a fronte di una ovvia riduzione del numero di ore settimanali. «Un grado di occupazione all’80 per cento è oggi ampiamente accettato - osserva Hermann - Per il momento sono invece soltanto pochissime le pmi pronte a dirsi favorevoli nei confronti di una settimana lavorativa di quattro giorni disciplinata ai sensi di legge, men che meno del modello della compensazione salariale».

Troppe poche donne: di chi è la colpa?

Molto discussa, per la gestione della problematica della carenza di forza lavoro, la strategia dell’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Per l’economia svizzera, sarebbe opportuno che le donne lavorassero con gradi di occupazione più elevati. Tuttavia, sono ancora troppo poche le pmi che adottano misure specifiche, con orari di lavoro flessibili (36%) e la possibilità di lavoro a tempo parziale e di job sharing (29%). Solo una impresa su tre è disposta ad adottare queste due misure; ancora meno frequentate quelle che contemplano un’attenzione al genere in sede di selezione del personale (18%) o l’adozione di programmi di incentivazione mirati (10%). «Proprio le ultime due misure indicate potrebbero apportare un importante contributo al fatto che le donne vengano non solo assunte in numero maggiore, ma facciano anche carriera più spesso e possano lavorare con gradi di occupazione più elevati», conclude Michael Hermann.

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