Incentivare la sostenibilità della moda generando un cambiamento di mentalità: è l’obiettivo di Francesca Boni, 24 anni. Ne aveva solo 17 quando inventò la piattaforma Il Vestito Verde, avviando un trend che oggi supera i 100mila utenti.
Capita che la vita prenda direzioni un po’ per caso; o almeno così pare, prima che si tirino le fila e si scopra che, in fondo, era in qualche modo già tutto scritto. Fin da bambini, quando si guardava incuriositi quel sacchetto di vestiti senza prezzo né etichetta, che di tanto in tanto entrava in casa; un tesoro dentro cui frugare in cerca della prossima maglietta da indossare, un vestitino, un bel cappello.
Un sito di alternative al fast fashion
A ripensarci oggi, si spiega facilmente anche il passato un poco più recente: quando, ormai grandi e al liceo, da Bologna al Canada per studiare all’estero, venne l’idea che con il tempo, neanche tanto, è cresciuta e diventata una professione o quasi, condivisa con la ricerca alla Bocconi: un social network in cui dedicarsi all’abbigliamento sostenibile, che si lascia alle spalle l’usa e getta per preferire la qualità di quando si avevano soltanto pochi anni. Francesca Boni è questo: una giovane donna che ha precorso i tempi, mentre era lontana dall’Italia e venne illuminata da un documentario sui diritti dei lavoratori del tessile. Ancora non sapeva che quello che per lei era un ideale sarebbe diventato un’occasione di confronto pubblico, scambio di idee, scelte consapevoli. Quando nacque, nel 2017, il Vestito Verde era solo una pagina Facebook cui la community potesse portare il proprio contributo, in termini di sapere, informazioni condivise, riflessioni e scambi di opinioni. «Non volevo contribuire all’inquinamento, né allo sfruttamento delle donne e dei minori», racconta Francesca oggi che ha 24 anni, vive a Milano da cinque e il suo social network si è trasformato un progetto in grande: un sito che raccoglie informazioni, le specifica, distribuisce.
Dall’ideale etico al gruppo Facebook
«Mi trovavo in Canada - ricorda Francesca, ospite all’evento di Money.it dedicato al tessile sostenibile, il 27 ottobre a Bologna - quando mi imbattei in quel documentario. Avevo già letto studi riguardo all’inquinamento delle acque e all’impatto della CO2 generata dal tessile. In quel momento presi la decisione: non avrei più comprato niente che non rispettasse le persone e l’ambiente». Facile in fondo, quando non sei ancora maggiorenne, hai solo una paghetta a tua disposizione e il guardaroba te lo fa la mamma. «Effettivamanente all’inizio non è stato complicato. Quando poi ho cominciato ad avere bisogno di vestiti nuovi, ho iniziato una ricerca per individuare brand sostenibili, aiutata da chi, sui social, dimostrava di saperne più di me. Nel frattempo, avevo infatti aperto un gruppo Facebook in cui condividere esperienze e dare voce a competenze più robuste».
La mappa dei negozi sostenibili in Italia
Voilà: ecco il crowdsourcing che diventa realtà, e piano piano si ingrossa fino a diventare qualcosa di sempre più interessante. Dai suggerimenti dei post online a una vera e propria piattaforma che li potesse contenere tutti; un sito che oggi raccoglie il senso della sostenibilità del tessile suddiviso in tre categorie. «Abbiamo un database dedicato all’ecommerce, per soddisfare le esigenze di chi vuole comprare abbigliamento sostenibile online - spiega Francesca - C’è poi una mappa, integrata con Google, che localizza i negozi in Italia, suddivisi per tipologie con colori diversi: Vintage, Second hand, Equo e solidale e così via. Infine, c’è il blog: perché non vogliamo che l’informazione sia calata dall’alto. Vogliamo dare l’opportunità a tutti di contribuire ad aumentare la consapevolezza del consumatore e aiutarlo a compiere la scelta migliore, per l’ambiente e per il portafoglio».
Il segreto del "poco ma buono"
Qui, però, si rischia di scivolare: perché, per usare frasi quasi fatte, la sostenibilità è un costo, non certo un risparmio. Francesca, però, guarda le cose da un’altra prospettiva. «È vero, all’inizio sembra che il fast fashion sia più conveniente. Se però si cambia approccio, si scopre la verità. Basta rinunciare all’acquisto compulsivo in favore del “poco ma buono”. Meglio calcolare il “costo per uso” del capo, che nel fast fashion spesso è più alto rispetto a quello del prodotto di qualità, indossato per maggiore tempo e da più persone».
Grandi firme: si può fare di più
Viene il dubbio però, a questo punto, che neanche le grandi firme siano cosa da lodare: la sostenibilità, per loro, è di sicuro una possibilità, ma non è detto diventi una scelta. «Già, non me la sento di dire che i brand di alta moda siano sostenibili. Di certo, però, hanno un margine maggiore per investire sulla sostenibilità, al confronto del fast fashion che non può permetterselo. In questo senso, hanno una maggiore responsabilità sociale. Le scelte, poi, sono individuali. Ci sono brand Made in Italy di assoluta eccellenza, sotto questo profilo, che permettono anche di conservare le tradizioni manifatturiere locali. C’è chi lo fa di più, chi un po’ di meno. Ogni azienda ha obiettivi diversi».
La sfida dell’Unione Europea
Ora che l’Unione Europea si appresta ad adottare normative rigide, è però urgente fare i conti con quello che si vuole. «Mentre in Paesi come il Bangladesh la legge è più condiscendente, ragion per cui il fast fashion è lì che produce, l’Europa è chiamata a invertire la tendenza - osserva Francesca - Sarà curioso vedere come il fast fashion convertirà i propri modelli». Ammesso che sia possibile. Perché, sottolinea ancora, quando si parla di fast fashion non si parla solo di Cina, esautorata dall’adeguarsi. Vi sono anche grandi marchi con sede in Europa, come H&M e Zara. «Come si muoveranno entro i confini le nuove normative? Staremo a vedere».
La domanda: chi paga al posto tuo?
Per il momento, a lei basta - e dici poco - «far sviluppare spirito critico ai consumatori. Se una maglietta la paghi 5 euro, devi quantomeno porti la domanda: chi sta pagando al posto tuo?». Francesca è sicura: «Nonostante le apparenze, il fast fashion non va a vantaggio di nessuno, se non dell’azienda che ci guadagna su. In un’ottima più olistica del fare impresa all’interno di un sistema, presenta solo difetti».
Costi più alti? Una mezza bugia
Eppure, se finora ha proliferato, una ragione esiste, anche evidente e fin scontata. «C’è chi non può permettersi altro. O così crede. Se però si cambia la cultura del consumo, ecco che la soluzione arriva. In Italia c’è tantissimo usato allo stesso prezzo del fast fashion, e in ottime condizioni. Bisogna operare una conversione dal fast fashion all’usato, senza pregiudizi. C’è chi ha qualche resistenza ad acquistare capi già indossati da estranei. Io, che sono stata abituata fin da piccola, non ho nessuna difficoltà a dire invece che almeno la metà del mio guardaroba è vintage, seconda mano. In fondo, nel consumo, l’abitudine è tutto: abbiamo bisogno di svilupparla. È una capacità che richiede motivazione, ma anche conoscenza. Bisogna saper comprendere che cosa comprare, anche alla luce del fatto che la disponibilità di taglie è minima».
Un’altra volta il merito è del Covid
Se fino a qualche anno fa era prerogativa di pochi, oggi la platea si allarga. Il sito conta oltre 100mila utenti annuali e quest’anno la mappa dei punti vendita ha superato i due milioni e mezzo di visite. «Ma dal 2017, quando il Vestito Verde è nato, al 2020 è stata una cosa di nicchia». Poi è arrivato il Covid, assieme a tanto male e qualche bene. «La gente aveva più tempo per documentarsi e anche un’attitudine diversa verso la vita e il suo valore». È cominciato il boom, cui il “vecchio” Facebook dà ancora il suo appoggio. «Ci sono ancora 6-7mila persone che dialogano. Qui è possibile un engagement organico». Lei legge, controlla, gioisce e alla fine però ammette. «Certo, non mi fosse venuta l’idea a 17 anni, oggi forse sarebbe stato più difficile schierarsi contro il fast fashion. Se fossi entrata nel circolo dell’usa e getta, magari sarebbe stato più faticoso rinunciarvi». Invece, è andata così.
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