E in vista delle elezioni cantonali, si augura che le donne diventino finalmente visibili al tavolo del Consiglio di Stato.
Poco più di una settimana fa si celebrava l’8 marzo. Ancora una volta sono stati accesi i riflettori sulla questione dei diritti delle donne. Come ogni anno conquiste sociali, economiche e politiche sono finite sulle pagine di giornale o dentro gli studi televisivi, mettendo in risalto le discriminazioni che ancora oggigiorno le donne sono costrette a subire. Discorsi ridonanti, che una volta spente le luci sembrano finire nell’archivio, pronti per essere riutilizzati l’anno successivo.
Basta guardare ai dati diffusi solamente qualche giorno prima dall’Ufficio federale di statistica per rendersi conto che in Svizzera e soprattutto in Ticino c’è ancora tanta strada da fare.
Di primo acchito i dati diffusi sembrano mostrare una notizia positiva: tra il 1991 e il 2022, il tasso di occupazione professionale femminile tra i 25 e i 39 anni è passato dal 70 all’87%. Ma in realtà, analizzandoli meglio, si riscontra che «a partire dai 25 anni di età, con l’assunzione delle prime responsabilità familiari, il tasso di attività delle donne risulta nettamente più basso di quello degli uomini. Un gap di genere che s’incrementa al crescere dell’età». A spiegarlo, Sara Ravanetti, analista di Equi-Lab, associazione con sede a Massagno, il cui compito è offrire consulenza in materia di conciliabilità e di pari opportunità a beneficio di lavoratrici e lavoratori, ma anche di imprese, enti pubblici e associazioni di categoria.
Guardando poi al Ticino «l’occupazione delle donne tra i 25 e i 39 anni è inferiore rispetto alla Svizzera (circa all’80%), ma in termini di gap di genere il trend è simile. Con l’acuirsi dei carichi di cura, le donne a partire dalla fascia d’età 30-34 anni diminuiscono considerevolmente la loro presenza nel mercato del lavoro ticinese».
La maggior parte tuttavia è assunta a tempo parziale, quali sono le ragioni?
«Il livello occupazionale delle donne, a differenza degli uomini, è in gran parte determinato dalla situazione familiare: il lavoro a tempo parziale si configura come la principale strategia adottata dalle donne con necessità di conciliazione. Le ragioni di questa scelta sono in primo luogo da ricondurre alle aspettative di ruolo della società e alla distribuzione disomogenea delle responsabilità di cura all’interno delle economie domestiche. Oltre a questi fattori sociali, concorrono numerosi aspetti economici, tra i quali i costi eccessivi dei servizi di cura della prima infanzia, la disuguaglianza salariale, i disincentivi fiscali verso i doppi redditi. Se liberamente scelto e in condizioni di lavoro sicure, il part-time offre indubbi vantaggi, anche in termini di conciliazione. Ma occorre ricordare che molto spesso siamo di fronte a tempi parziali involontari e a cui si associano condizioni di lavoro e di vita precarie».
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La maternità rappresenta ancora un ostacolo per le aziende? C’è ancora la tendenza a licenziare la neo mamma al rientro dal congedo?
«La maternità, purtroppo, è ancora percepita da molte aziende solo come un problema da risolvere. Come un costo, anziché un potenziale beneficio. L’esperienza della genitorialità consente di sviluppare competenze che sono estremamente utili sul lavoro, le cosiddette soft skills, quali la capacità di organizzare, pianificare, improvvisare, gestire efficacemente il tempo, risolvere brillantemente imprevisti e situazioni di crisi. Per le aziende lavorare su queste competenze acquisite è la vera sfida, perché significa trasformare un problema in opportunità. È un cambiamento culturale ancora molto lontano e i licenziamenti al rientro della maternità sono una piaga ancora molto diffusa.
In generale, in Svizzera, la protezione legale della maternità e le politiche familiari, come il congedo parentale per esempio, sono molto lacunose rispetto al resto d’Europa».
Guardando al futuro, con l’aumento della necessità di nuova forza lavoro, si dice che la sottoccupazione femminile possa essere una risorsa. Come favorire il rientro delle lavoratrici?
«Oltre ad adottare politiche sui congedi al passo con i tempi, per facilitare il ritorno delle donne nel mercato del lavoro occorrerebbe sostenere la conciliazione tra necessità personali e professionali: permettere una maggiore flessibilizzazione dei tempi e degli spazi di lavoro, mettere a disposizione servizi e risorse per la cura di figli e familiari bisognosi a costi accessibili, innovare le culture aziendali valorizzando le competenze individuali.
È inoltre fondamentale favorire una più equa distribuzione dei carichi di cura all’interno delle economie domestiche. Nelle aziende ciò sarebbe possibile, ad esempio, incentivando anche gli uomini ad adottare forme di lavoro flessibili e incoraggiando un uso bilanciato nella coppia dei congedi a disposizione».
L’altro elemento emerso dai dati dell’Ust è che ancora troppe poche donne occupano posti dirigenziali. E quando li occupano sono anche sottopagate rispetto ai colleghi uomini, perché?
«Le barriere culturali ed economiche che ostacolano le donne nel raggiungimento di posizioni dirigenziali sono ancora elevate. Giocano un ruolo decisivo gli stereotipi di genere tant’è che, molto spesso, il mancato avanzamento di carriera è ancora da ricercarsi nella differente valutazione del lavoro di uomini e donne, non giustificata da criteri oggettivi.
Lo sviluppo di carriera è ancora altresì strettamente legato al mito del presenzialismo e allo svolgimento dell’attività professionale a tempo pieno. Chi lavora a tempo parziale, dunque soprattutto per le donne, ha minori opportunità di formazione e di accedere a posti di responsabilità. Tutto ciò si traduce in minori promozioni per le lavoratrici e in segregazione verticale, soprattutto in Paesi come la Svizzera, dove i ruoli di genere sono ancora fortemente stereotipati. Una visione del lavoro antiquata e discriminatoria che, anche per quelle donne che riescono a rompere il soffitto di cristallo, si tramuta nella gran parte dei casi in disparità salariale; una visione sempre più incoerente con la mentalità e le esigenze delle nuove generazioni».
Il gender gap esiste anche in quelle professioni prevalentemente femminili, come può essere quella infermieristica. Non è una contraddizione?
«Anche nelle professioni tipicamente femminili persistono barriere all’ascesa delle donne. Nella fattispecie, le professioni sanitarie sono sempre state dicotomiche: da una parte i pochi uomini che decidono e stanno nelle posizioni apicali, dall’altra le molte donne che lavorano sulle altrui decisioni e sono in posizioni inferiori.
Quanto alle disuguaglianze salariali sono riconducibili solo in parte alle segregazioni occupazionali: i settori in cui si concentrano le donne sono meno remunerativi dei lavori tipicamente maschili. Ma se una parte del gender pay gap si può spiegare con il ramo economico o con fattori oggettivi, quali l’anzianità di servizio e la responsabilità, una parte di differenza salariale resta inspiegabile e dunque riconducibile unicamente al genere».
Guardando alle elezioni cantonali, che cosa augura alle donne del Cantone?
«Auguro loro di diventare finalmente visibili. Di potersi sedere ai tavoli in cui si prendono le decisioni che contano. Di poter partecipare all’individuazione e implementazione delle soluzioni che contribuiscono a realizzare una vera conciliazione tra necessità familiari e professionali. In un’ottica di dialogo tra individui, aziende e istituzioni. La riduzione del gap di genere è una responsabilità politica e sociale: ne beneficeremmo tutte e tutti, ma purtroppo se ne ha ancora scarsa consapevolezza».
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