Non solo dipendenti più felici e produttivi, la settimana lavorativa di quattro giorni sarebbe una manna dal cielo anche per rispondere a una delle questioni sociali che caratterizza la nostra nazione: l’invecchiamento. Ma concretamente potrebbe funzionare?
La tematica della settimana corta, ovvero la riduzione della settimana lavorativa da cinque a quattro giorni, sta diventando sempre più diffusa e se fino a qualche mese fa era una questione solamente discussa, ora ci sono diverse aziende che hanno scelto prima di sperimentarla e alla fine di adottarla.
Nell’ottobre del 2021, l’azienda spagnola Desigual, a seguito di un referendum interno, aveva deciso di portare la settimana lavorativa a quattro giorni accompagnata da una riduzione del salario del 6,5%. L’iniziativa, raccontavano ai tempi dai vertici dell’azienda, faceva parte di un piano più ampio per offrire modelli di lavoro e di conciliazione con la vita privata e coinvolgeva le quasi 500 persone impiegate negli uffici centrali di Desigual a Barcellona. A sette mesi dall’iniziativa, un altro sondaggio interno ha poi mostrato che l’80% dei dipendenti afferma di aver migliorato l’equilibrio tra lavoro e vita privata e quasi il 70% ritiene di organizzarsi in modo più efficiente. L’85% dei dipendenti considera il nuovo metodo lavorativo un buon motivo per consigliare Desigual come azienda in cui lavorare e il 70% di loro crede che questo sistema gli permetterà di attrarre nuovi talenti.
Settimana corta solo per le aziende innovative?
Flessibilità e conciliazione con la vita privata sono elementi fondamentali delle offerte di lavoro e spesso interessano gli ambienti di lavoro più innovativi. Una prospettiva che sembra ancora lontana dalla Svizzera e, forse, soprattutto dal Ticino. Anche se, a dire la verità, qualcosa sembra muoversi. I primi segnali di innovazione arrivano da Zurigo. Tra le prime piccole medie imprese (Pmi) a tracciare la rotta verso il cambiamento cambiamento, l’azienda di produzione di stufe, Glutform Rüegg a Dietlikon, dove Martin Ritler, a seguito di un burn out, ha deciso di ridurre la settimana lavorativa dei suoi dipendenti a 4 giorni. Il monte ore settimanale è stato portato a 36 ore. Il giorno libero “extra” lo si ottiene lavorando 9 ore al giorno, anziché 8, ma la scelta rimane al dipendente: può decidere infatti se lavorare quattro giorni a 8 ore e uno le restanti 4 ore. Dunque il venerdì, per esempio, sarebbe solo di mezza giornata. L’azienda ha testato il modello da inizio 2022 e ora, Ritler ha dichiarato in un’intervista al Tages-Anzeiger di volerlo mantenere.
A seguirlo nell’iniziativa, l’azienda EO Elextro Oberland con sede a Bauma, dove i dipendenti lavorano per quattro giorni già da questa primavera e a stipendi pieni. A volerla, l’amministratore delegato René Schmid che, dopo sette mesi di test, ha deciso di proseguire su questa rotta. L’orario di lavoro “a tempo pieno” è stato ridotto anche qui da 40 a 36 ore, allungando la giornata lavorativa da otto a nove ore. E i dieci dipendenti non stanno tutti a casa il venerdì. Per far sì che le operazioni non si fermino e che i clienti vengano soddisfatti, infatti, metà di loro è libera il quinto giorno della settimana, l’altra metà il lunedì.
Anche in ospedale stanno aggiustando il tiro
Non solo le Pmi, ma anche l’ospedale di Wetzikon (Zh) per far fronte alla carenza di personale infermieristico e rendere più attrattiva la struttura sul piano lavorativo, ha deciso da giugno di ridurre l’orario di lavoro a tempo pieno del personale sanitario a 37,8 ore settimanali, mantenendo il salario invariato. Un’esigenza nata a seguito dell’iniziativa «per cure infermieristiche forti», approvata in votazione lo scorso novembre e che ha evidenziato l’enorme carico di lavoro per il personale che lavora su turni.
Da questi esempi si intuisce dunque che il modello lavorativo della settimana corta non implica per forza di cose una riduzione del monte ore lavorativo e basta. «Ci sono anche altre soluzioni – ci spiega Nicolas Pons-Vignon, professore in Trasformazione del lavoro e innovazione presso il Centro competenze lavoro, welfare e società della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi) –. Per esempio si può ridurre il monte ore lavorativo quotidiano a 5-6 ore al giorno. Oppure, considerando che la durata complessiva delle ore lavorate si calcola su base annua, può essere mantenuta la settimana lavorativa di cinque giorni full time, andando ad aumentare il numero di settimane di vacanza». Puntualizzando: «L’importante è che la settimana corta venga associata da una riduzione oraria: lasciare invariato lo stesso monte ore spalmato su quattro giorni, invece, rende la giornata più stancante, comportando un incremento dello stress e una conseguente diminuzione della produttività. Per trovare la formula adatta per la riduzione del tempo è comunque necessaria una negoziazione tra sindacati e datori di lavoro, per individuare e coniugare i bisogni di entrambe le parti».
Applicando questo modello lavorativo, la produttività delle aziende viene intaccata?
«Dipende sia dalla crescita della produttività, sia del modo in quale viene distribuita, tra datori di lavoro e impiegati. Oltre sessant’anni fa il grande economista Keynes aveva fatto una predizione (che non si è poi realizzata), dicendo che da lì a qualche decennio si sarebbe potuto lavorare per sole tre ore al giorno. Sosteneva infatti che con l’aumento della produttività, le ore di lavoro si sarebbero potute diminuire. Un cambiamento che non è avvenuto, a riprova del fatto che una grande parte della crescita è stata assorbita dalle imprese e non spartita tra i lavoratori, a partire dagli anni 70, come lo mostra l’economista Thomas Piketty».
Quali benefici comporta per gli impiegati?
«Ridurre le ore di lavoro è desiderabile dal punto di vista sociale. Dopo la pandemia si è parlato spesso di Work life balance - anche se la questione non è nuova -, l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Molte persone fanno fatica a trovarlo, un fenomeno ampliato a causa dello sviluppo degli strumenti digitali, che a volte sono usati per obbligare i lavoratori a essere disponibili oltre l’orario consentito. Questo aspetto minaccia l’equilibrio tra vita personale e lavoro. Non è dunque solo una questione di qualità di vita per i dipendenti, ma anche un aspetto importante per i datori di lavoro. Burn out e stress hanno un effetto sul medio e lungo termine molto dannoso su efficienza e produttività».
E per i datori di lavoro?
«Diversi studi hanno dimostrato che se una persona è più felice, meno stressata e con una vita più equilibrata, è anche più produttiva e, naturalmente, più motivata. Una riforma che migliora il benessere dei collaboratori è coerente con i bisogni delle imprese, ma non sempre con i desideri dei manager. Già negli anni Sessanta, l’importanza del coinvolgimento attivo della forza lavoro è stato identificato come la prima sfida manageriale per consentire alle imprese di rispondere alla concorrenza, con imprese che hanno bisogno di lavoratori adattabili e autonomi. Il management deve dunque superare il modello del controllo, fondato sull’ipotesi che il lavoratore vuole evitare di lavorare, e accettare un maggiore coinvolgimento nelle decisioni. Non è fisica quantica: se sono felice e mi sento valorizzato, lavoro meglio».
Qual è la soluzione più efficace?
«Tra tutte le possibilità, la riduzione del tempo lavorativo nella forma di settimana da 4 giorni, credo sia la formula più interessante. Rimane comunque il fatto che ogni impresa dovrebbe rimodulare i contratti a seconda delle proprie esigenze, negoziando in modo informato ed equo con le parti sindacali. Senza rappresentanza sindacale, la negoziazione è sbilanciata e lo sono anche i risultati. La negoziazione potrebbe consentire di rispondere a delle sfide organizzative diverse, tra lavoro in ufficio, in fabbrica, o in negozi a contatto con il pubblico come panetteria o farmacia».
Perché oggigiorno è un modello necessario?
«Si deve cambiare qualcosa nel mondo del lavoro, luogo di grande sofferenza per tante persone. Il fenomeno delle grandi dimissioni è una manifestazione molta chiara di questo. Sia al Nord che al Sud del mondo, le persone dicono “basta”, soprattutto a lavori molto coinvolgenti e poco riconosciuti, come nel settore sociosanitario. Non possiamo ignorare il problema della qualità del lavoro».
Guardando al nostro Stato, perché le aziende dovrebbero iniziare a considerarlo?
«In Svizzera, oltre il 75% delle persone che lavorano a tempo parziale sono donne. Questo indica che la maggior parte del tempo libero è dedicato alla cura dei bambini e dei famigliari. Oggi nel nostro Paese, così come in Francia, Germania e Italia, assistiamo a un fenomeno che richiede diverso tempo alle persone in età di lavoro: l’invecchiamento. Dunque, molte persone hanno bisogno di prendersi cura di genitori o nonni anziani; ecco dunque che curanti diventano i famigliari. Impedendoglielo significa che dovranno affidarsi a qualcun altro, implicando un costo per la società. La nazione è sempre più anziana, con alti bisogni di cura e la società ha il compito di farsene carico. Chiedere o creare la possibilità per chi lavora di avere del tempo da dedicare ai propri cari, rappresenta qualcosa di positivo per tutti. Non dimentichiamo che, quando la cura viene esternalizzata, significa impiegare persone nella cura di terzi, a loro volta dipendenti di qualche struttura».
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Da parte degli imprenditori si nota una certa resistenza quando si tocca l’argomento.
«I cambiamenti degli accordi lavorativi sono da sempre legati a un rapporto di forza tra datori di lavoro, Stato e impiegati. È evidente che ci sono resistenze da tutte le parti. Ma la crescita economica riflette l’aumento della produttività lavorativa: produciamo di più e forniamo gli stessi servizi in meno tempo. Se io sono un lavoratore di un’industria in cui cresce la produttività, ma il mio stipendio non aumenta, significa che quel che è stato prodotto in più viene completamente assorbito dai profitti del datore di lavoro. È quanto avviene in Ticino, dove molti lavoratori sono stranieri, con un debole potere di negoziazione con i loro datori di lavoro. Non significa che questo non possa cambiare, se la fabbrica riesce a essere più produttiva, può ridistribuire il surplus produttivo anche tramite una riduzione della settimana lavorativa. Come già detto, è nell’interesse dei datori di lavoro avere dei collaboratori soddisfatti e più produttivi».
Da cosa dipende questo freno?
«I manager hanno l’impressione che con lavoratori meno presenti si perda il controllo delle persone e della situazione. Per questo, è importante mettere sul tavolo anche la qualità del management. Dalle ricerche svolte insieme ai colleghi della Supsi nell’ambito del telelavoro, è emerso come la più grande resistenza sull’adozione del lavoro ibrido era legata al fatto che richiede una maggiore agilità manageriale. Gestire un team a distanza è più complicato e per il manager significa avere ben chiari gli obiettivi di ciascuno. Da parte dei manager ci sono delle resistenze perché vogliono avere il controllo. Questo vale anche per la settimana corta».
Perché allora alcune aziende riescono ad adottarla?
«Generalmente, si osserva che l’uso delle forme avanzate di ristrutturazione del tempo lavorativo, sono più frequenti in organizzazioni molto innovative e che non hanno paura di iniziare a seguire un cambiamento. Certo, richiede molto impegno, negoziazione e lavoro, non è facile. Per questo motivo, lo Stato avrebbe sicuramente un ruolo importante a giocare».
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